Almaviva fa e disfa. Propone accordi “non negoziabili”, licenzia, trasferisce. I sindacati hanno due possibilità: accettare la politica di compressione dei salari o rifiutare e rischiare che i dipendenti perdano il posto. Così se a Milano la Cisl ha accettato l’accordo proposto dall’azienda con cassa integrazione a zero ore e straordinari non pagati, ma i lavoratori con un referendum si sono rifiutati di sottostare alle nuove regole al ribasso andando incontro al trasferimento (bloccato, per ora, dal ministro Carlo Calenda), a Roma quasi un anno fa accadde il contrario. I delegati delle rappresentanze sindacali non firmarono la proposta di mediazione, tanto che non è stato più possibile tornare indietro, neppure dopo l’esito del referendum interno fissato da Rsu e strutture regionali di Slc e Cgil, favorevoli all’accordo. Negli stessi giorni a Napoli e a Palermo i sindacati accettarono le condizioni proposte dall’azienda. Qual è la strada giusta?

Di certo non c’è una strada univoca da parte dei sindacati, non c’è il rispetto dei diritti dei dipendenti e neppure una presa di posizione netta da parte dello Stato in difesa dei lavoratori dei call center. Prova ne è il fatto che, proprio dopo i licenziamenti di Roma, a febbraio scorso, la Consip ha assegnato ad Almaviva due gare nell’ambito della realizzazione dell’agenda digitale nelle pubbliche amministrazioni. Per un totale di 850 milioni di euro che il colosso delle telecomunicazioni ha incassato insieme alle società con le quali si è unita in raggruppamento temporaneo d’impresa.

L’ACCORDO BOCCIATO E IL TRASFERIMENTO – L’ultima battaglia è iniziata quando l’Eni ha deciso di non rinnovare l’accordo con Almaviva (il contratto è scaduto il 30 settembre scorso) per la gestione dei propri call center ma di voler internalizzare il servizio. Dietro questa scelta c’è anche la firma a Palazzo Chigi, nel maggio scorso, del protocollo di autoregolamentazione sulle attività di call center che hanno adottato 13 grandi società committenti, tra cui l’Eni. Tra i nodi più spinosi quello sulle delocalizzazioni. Di fatto Eni non può dare l’appalto ad aziende che delocalizzano, pena la violazione del codice. Cosa ha fatto l’azienda a quel punto? Almaviva ha proposto, non solo ai 110 dipendenti interessati dal contratto con Eni ma a tutti i 440 dipendenti della sede di Milano, di sottoscrivere un accordo che prevede, tra le altre cose, la cassa integrazione a zero ore, gli straordinari non pagati e il pieno dominio su organizzazione del lavoro e turni. Solo la Fistel Cisl ha accettato l’accordo, bocciato invece con il 75% dei voti (322 no, 107 sì e una scheda nulla) con un referendum dei lavoratori, che hanno così rischiato il posto di lavoro. In seguito al referendum, infatti, l’11 ottobre scorso l’azienda ha comunicato a 65 dipendenti di aver aperto la procedura di trasferimento collettivo da Milano a Rende (Cosenza). Un trasferimento forzato da rendere esecutivo in meno di un mese per non perdere il posto in azienda.

IL MINISTRO CALENDA BLOCCA TUTTO – Il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda è così intervenuto per bloccare quello che di fatto verrebbe a configurarsi come un “licenziamento mascherato”, chiedendo di sospendere i trasferimenti dei lavoratori e aprendo alla possibilità di una mediazione. Il ministro ha anche annunciato la convocazione “nelle prossime ore” di un incontro al Mise per cercare soluzioni alternative a quella ipotizzata da Almaviva. Da qui il dietrofront dell’azienda che ha deciso di ritirare i trasferimenti. In una nota Almaviva ha spiegato di aver accolto “con responsabilità l’appello del Governo a sospendere le misure finora adottate, in attesa dell’incontro in sede ministeriale, previsto nei prossimi giorni, per la necessaria definizione di un’intesa che garantisca l’indispensabile equilibrio del sito produttivo”. Ancora una volta i lavoratori di Almaviva sono con il fiato sospeso. Secondo i sindacati la decisione di aprire una procedura di trasferimento non è altro che una rappresaglia per l’esito del referendum. Dall’altra parte l’azienda si difende, spiegato che la decisione dei lavoratori “ha imposto di assumere con tempestività tutte le misure ineludibili e consentite dal contratto al fine di minimizzare le conseguenze negative per l’insieme dei lavoratori e per le attività del centro di Milano”.

IL REFERENDUM E I LICENZIAMENTI DI ROMA – L’esito del referendum di Milano è opposto a quello nel quale si espressero a fine 2016 i lavoratori della sede di Roma. A ottobre scorso la società di call center aveva annunciato l’apertura di una procedura di riduzione del personale all’interno di un nuovo piano di riorganizzazione aziendale. Il 22 dicembre, al termine di un tavolo di confronto tra Almaviva Contact e le Rsu degli stabilimenti del gruppo, i 13 delegati delle rappresentanze sindacali della sede di Roma non firmarono la proposta di mediazione. Le lettere di licenziamento partirono e a nulla valse l’esito del referendum interno fissato da Rsu e strutture regionali di Slc e Cgil per il 27 dicembre, attraverso il quale con 590 voti favorevoli e 473 contrari, i dipendenti dissero ‘sì’ all’intesa anche per la sede di Roma, così come era avvenuto per quella di Napoli. Risale a prima dell’estate la sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma che ha respinto il ricorso contro i 1.666 licenziamenti della sede della Capitale presentato da Cgil-Silc. Per il Tribunale quei licenziamenti sono dunque legittimi. Per il giudice del lavoro Renata Quartulli, insomma, sono state le divisioni interne alla Cgil a provocare il fallimento della trattativa. La sensazione è che da qualunque prospettiva la si guardi a perdere sono sempre e comunque i lavoratori.

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