Una bocciatura annunciata. L’ennesima che colpisce un pezzo della riforma della pubblica amministrazione. Il rinvio alla Consulta del decreto attuativo sull’assorbimento del corpo forestale nell’arma dei carabinieri e nei vigili del fuoco è solo l’ultima tappa di un percorso il cui esito era stato ampiamente previsto dai sindacati. Non solo: sia le associazioni ambientaliste sia il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti avevano chiesto al governo Renzi di ripensarci perché sopprimere i forestali e militarizzare i 7.800 dipendenti del corpo avrebbe spianato la strada agli ecoreati. Niente da fare: la ministra Marianna Madia e il titolare delle Politiche agricole Maurizio Martina sono andati avanti e nel luglio 2016 il consiglio dei ministri ha approvato il provvedimento sulla “razionalizzazione delle funzioni di polizia”. Poco più di un anno dopo, ecco l’ordinanza del Tar dell’Abruzzo. Secondo cui la riforma del corpo nato nel 1822 viola almeno cinque articoli della Carta in quanto impone “l’assunzione non pienamente volontaria dello status di militare“.

Su 32 elicotteri solo 8 operativi. E mancano 250 “direttori operazioni spegnimento” – Nel frattempo gli effetti concreti della riforma si sono visti sul territorio: quest’estate oltre 100mila ettari di boschi italiani sono andati a fuoco mentre gran parte degli elicotteri della ex forestale rimaneva a terra. Dall’1 gennaio di quest’anno sui 32 a disposizione del corpo eliminato 16 sono passati ai carabinieri, che li usano per altre finalità, e 16 sono stati assegnati ai vigili del fuoco. Ma tra questi otto, ha ammesso il ministero dell’Interno rispondendo a una richiesta di accesso civico ai dati presentata da lavoce.info, sono “interessati da manutenzioni calendariali e al momento non disponibili per l’operatività“. Gli altri 8 sono in assetto operativo, ma con “i fermi tecnici, brevi, derivanti dai cicli ordinari di manutenzione”. Prima della riforma, poi, la direzione delle operazioni di spegnimento (Dos) era affidata a 1.056 forestali che avevano seguito un corso ad hoc ed erano esperti nel coordinamento di squadre e mezzi impegnati per spegnere gli incendi. Ora se ne occupano 750 vigili del fuoco: sono di meno, conoscono meno il territorio e sono stati formati solo per la gestione dell’intervento aereo.

Ma anche la prevenzione ne ha risentito. “Quasi 6.500 ex forestali sono passati ai carabinieri. Solo 361 sono confluiti nei Vigili del fuoco e continuano quindi a occuparsi di antincendio”, spiega a ilfattoquotidiano.it Gabriele Pettorelli, coordinatore nazionale del sindacato Conapo, ora integrato nei Vvf. “Sul ruolo di quelli (circa 260) distribuiti nelle regioni, peraltro, c’è stata confusione normativa. E alcuni comandanti dei Vvf hanno deciso in via precauzionale di non utilizzarli”. Poi ci sono i ritardi delle Regioni nell’adeguarsi al nuovo sistema. Prima della riforma gli enti, che ogni anno devono aggiornare il loro piano antincendi, potevano affidarsi al volontariato di protezione civile e noleggiare elicotteri da aziende private o stipulare convenzioni a pagamento con il corpo forestale, che metteva a disposizione i suoi mezzi. Quest’anno avrebbero dovuto fare lo stesso con i vigili del fuoco. Stando alla tabella inviata dal Viminale alla voce.info, finora l’hanno fatto 15 Regioni. Ma molte si sono mosse con grande ritardo, considerato che già a fine giugno gli incendi stavano devastando Lazio, Toscana, Calabria e Sicilia: la Toscana per esempio ha firmato l’accordo solo l’8 agosto, la Sicilia l’1 agosto, la Sardegna il 31 luglio, l’Umbria il 20 luglio.

Le associazioni ambientaliste: “Si ridurrà il contrasto agli ecoreati” – Una débâcle che si sarebbe potuta evitare se il governo avesse ascoltato gli appelli contro la militarizzazione del corpo. Già nell’agosto 2014, un mese dopo il varo del ddl delega per la riforma della pa, Legambiente, Greenpeace, Libera e Slowfood avevano scritto ai parlamentari e al governo perché “scongiurassero l’ipotesi di assorbimento delle funzioni di polizia del Corpo Forestale dello Stato in quelle delle altre forze di polizia e delle amministrazioni locali”, avvertendo che “rappresenterebbe un netto e irrecuperabile arretramento nel contrasto ai crimini contro il patrimonio naturale e paesaggistico, dagli incendi boschivi al dissesto idrogeologico, dall’abusivismo edilizio in aree interne allo smaltimento illegale di rifiuti, dai reati contro gli ecosistemi naturali e le specie protette fino agli illeciti in campo agroalimentare”.

Il procuratore antimafia: “Non eliminare l’unico corpo che scopre i crimini ambientali” – Tre mesi dopo, il 4 novembre 2014, Roberti era stato audito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti nel ciclo dei rifiuti. Quando gli avevano chiesto che conseguenze avrebbe avuto l’accorpamento – i forestali si occupavano anche di lotta all’inquinamento ambientale – il magistrato aveva spiegato di essere “contrarissimo” perché “sarebbe come togliere all’autorità giudiziaria l’unico organismo investigativo in materia ambientale che disponga delle conoscenze, delle esperienze, del know-how e anche dei mezzi per poter smascherare i crimini ambientali“. Rilievi non recepiti da Martina: il 18 marzo 2015 il ministro, al cui dicastero il corpo forestale faceva capo prima della riforma, aveva sostenuto che “la riorganizzazione rappresenta una concreta opportunità per valorizzare ancora meglio l’esperienza degli uomini e delle donne del Corpo forestale”.

L’opposizione dei sindacati: “Status giuridico stravolto. Parola agli avvocati” – Intanto i sindacati Sapaf, Ugl-Cfs, FnsCisl, CgilFp, Uil-Pa e Dirfor protestavano contro l’assorbimento nei carabinieri, “sostenuto dal governo e dai rispettivi comandanti, ma non condiviso dal 98% degli appartenenti” al corpo, che hanno scelto di lavorare in “una forza di polizia civile dove è preminente la peculiare attività di prevenzione ambientale”. Con l’aggravante che l’accorpamento in una forza militare, “stravolgendo il loro status giuridico”, avrebbe “demolito per decreto tutele sindacali faticosamente ottenute dopo anni di rivendicazioni”: i carabinieri infatti non hanno il diritto di costituzione e di libera associazione ai sindacati. “Se dovesse essere confermata la volontà di far transitare tutto e tutti nei Carabinieri, sancendo la militarizzazione coatta delle funzioni di polizia ambientale e agroalimentare e del personale, non rimarrà altro che lasciare la parola agli avvocati“, avvertivano le sigle nel gennaio 2016. Ed è stato proprio il ricorso di un ex vice sovrintendente del corpo ad aprire la strada al pronunciamento del Tar, secondo cui la riforma è contraria alla “libertà di autodeterminazione” dei lavoratori e soprattutto “nulla nella legge delega consentiva al governo di ritenersi espressamente autorizzato a militarizzare il personale del disciolto corpo forestale dello Stato” né “la militarizzazione si poneva come scelta obbligata”. L’ordinanza potrebbe essere solo la prima di una serie, visto che sono oltre 2mila i contenziosi aperti davanti ai tribunali amministrativi in seguito a ricorsi di ex membri del corpo.

Altri quattro decreti già bocciati dalla Consulta. E la trasparenza sui patrimoni dei dirigenti è in bilico – Il decreto attuativo inviato all’esame della Consulta è, peraltro, solo l’ultimo in ordine di tempo su cui sono emersi dubbi di legittimità. Nel novembre 2016 la Corte ha dichiarato incostituzionali le norme attuative su dirigenti pubblici, partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego, in pratica il cuore della riforma Madia, perché approvate senza la necessaria “intesa” delle Regioni. Risultato: il governo ha dovuto riscriverli, ammorbidendoli in molte parti per ottenere il via libera dei governatori. La riforma della dirigenza, per la gioia dei mandarini di Stato, è invece definitivamente saltata visto che la delega era in scadenza (peraltro il decreto era già stato demolito dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi sistemi di valutazione). Pochi mesi fa, poi, l’Anac ha dovuto sospendere la delibera sulla pubblicazione dei loro dati patrimoniali, prevista dal decreto Madia sul Freedom of information act all’italiana. Una mossa obbligata dopo che il Tar del Lazio, a cui i dirigenti hanno fatto ricorso lamentando la violazione della loro privacy, ha emanato un’ordinanza cautelare che congela l’operazione trasparenza. A ottobre si pronuncerà sul merito, e a quel punto anche questo tassello della riforma rischia di saltare.

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