“L’Ue è morta, ma non lo sa ancora. O facciamo un’Europa delle Nazioni, oppure dirò ai francesi che dobbiamo lasciare l’Unione e li farò votare”. Parlava così Marine Le Pen ai taccuini di Bild poche ore dopo la foto scattata a Coblenza con Matteo Salvini, Geert Wilders, Frauke Petry e Harald Vilimsky. Ritratto di famiglia dei populismi d’Europa. Scagliandosi contro le élite politiche ed economiche, usando slogan diretti alla pancia della popolazione più colpita dalla crisi, i movimenti nazionalisti che vedono nelle istituzioni di Bruxelles il moloch contro cui battersi in nome della libertà dei popoli sono saliti al potere in Ungheria e Polonia, hanno trascinato il Regno Unito fuori dall’Ue, hanno sfiorato la presidenza in Austria e nel 2017 puntano a un ruolo politico di primo piano in Francia, Germania e Paesi Bassi.

 

2015-16, il biennio dei populismi che conquistano le periferie
“Il populismo è una retorica politica dal nucleo ideologico semplice e semplicistico, ma facilmente accoppiabile con ideali più strutturati come il nazionalismo”, spiega a IlFattoQuotidiano.it Alberto Martinelli, docente di Scienze Politiche all’Università Statale di Milano. Le caratteristiche che ne hanno favorito il successo sono sempre le stesse: “La contrapposizione molto semplicistica tra il popolo, entità sempre positiva, e le élite, sempre corrotte. Una visione, questa, che trova terreno fertile nella crisi economica, politica e sociale che stiamo attraversando. A questo, vanno aggiunti la costante ricerca di un capro espiatorio, il ‘recupero della sovranità popolare’ e la strumentalizzazione di alcuni aspetti della globalizzazione sia economica che culturale”.

Una formula vincente che ha trovato terreno fertile soprattutto nelle periferie che più soffrono le conseguenze della crisi, deluse dai fallimenti della vecchia classe dirigente. È così che, in Ungheria, Fidesz, il partito del premier Viktor Orbán, governa dal 2010 riscuotendo consensi tra il 45% e il 52%. Con Jobbik, partito di estrema destra che insieme al governo è il principale artefice della costruzione della barriera anti-immigrati al confine con la Serbia, che attira consensi intorno all’11%. Situazione simile a quella della Polonia, dove la formazione della destra ultranazionalista Diritto e Giustizia con a capo Beata Szydlo è salita al governo nel 2015 senza bisogno di formare alleanze. “Questi due casi, soprattutto quello ungherese – continua Martinelli – sono l’esempio della deriva illiberale alla quale possono portare alcuni movimenti populisti, soprattutto in un’area, l’Europa dell’est, in cui la tradizione liberal-democratica è meno radicata: la convinzione che una vittoria democratica legittimi il governare senza confrontarsi con le altre parti politiche. Questa non è politica, ma dittatura della maggioranza”.

Anche le periferie britanniche hanno spinto per la vittoria del Leave in occasione del referendum sulla Brexit. Un voto che l’ex premier, David Cameron, ha concesso nel tentativo di risanare la spaccatura interna al governo e ai Conservatori e togliere voti allo United Kingdom Independence Party di Nigel Farage, giocando su un tema, quello dell’uscita dall’Unione Europea, cavalcato dai partiti populisti di mezza Europa. Un risultato sorprendente, quello britannico, che però ne ha solo anticipato uno ancora più impressionante: l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

“Nuovo modo di fare politica? I partiti ‘tradizionali’ dovranno adeguarsi… ma solo in parte”
Le periferie che hanno portato a questi risultati in parte inaspettati sono le stesse che hanno permesso ad Alternative für Deutschland (AfD), il partito nazionalista tedesco guidato da Frauke Petry che ha le proprie roccaforti nella ex Germania dell’Est, di conquistare il 13% dei consensi secondo gli ultimi sondaggi; oppure al Front National di Marine Le Pen di essere ancora oggi il primo partito in Francia e il più votato dalla classe operaia; ma anche al Partito per la Libertà di Geert Wilders, formazione ultranazionalista e anti-Islam, di trovarsi in testa ai sondaggi nei Paesi Bassi; come a Norbert Hofer (Partito della Libertà, di cui l’Harald Vilimsky del selfie con Salvini è segretario generale) di sfiorare la presidenza dell’Austria ottenendo il 47% di consensi alle ultime elezioni di dicembre.

Chi soffre più la crisi, chi è in difficoltà, esprime quindi un voto di protesta. “Il ruolo dei nuovi media è fondamentale – spiega Martinelli – la comunicazione dei movimenti populisti si basa sull’individuazione di uno o più capri espiatori, sul complottismo e sulla svalutazione dell’esperto, anch’esso considerato membro di quelle élite da combattere. È così che si arriva al rifiuto dell’autorevolezza che, spesso, porta alla perdita di punti di riferimento e ad assumere per vera qualsiasi informazione, anche palesemente falsa, purché anti-casta”.

“Alcuni partiti si sono già adeguati a questo nuovo modo di comunicare – continua il docente – altri lo faranno. Ma una distinzione rimarrà sempre: quella tra chi combatte la politica e chi la fa. In campagna elettorale gli slogan possono anche vincere, ma una volta eletti si deve fare politica e questo significa anche confrontarsi con le opposizioni. Governare mette spesso in luce i limiti di una forza politica. La vittoria, quindi, potrebbe anche diventare la tomba delle formazioni populiste”.

2017 anno della consacrazione del nazional-populismo europeo?
Il 2017, però, si presenta come l’anno della loro possibile consacrazione, soprattutto in Francia e Paesi Bassi, dove il Front National e il Partito per la Libertà sono in testa ai consensi. “Si tratta di cifre importanti – commenta Martinelli – il 13% di AfD, per tutto ciò che il termine nazionalismo evoca in Germania, è un risultato impressionante, ma non credo che Frauke Petry possa diventare qualcosa di più del leader del primo partito d’opposizione. In Francia, Marine Le Pen è in testa ai sondaggi, ma è penalizzata dal sistema elettorale, con un secondo turno che la vedrebbe nettamente sconfitta. Per quanto riguarda Wilders, nonostante anche lui sia in vantaggio sulle altre formazioni politiche olandesi, non lo vedo come primo ministro dei Paesi Bassi. Potrebbe certamente entrare, però, in una coalizione di governo”.

La consacrazione di un partito nazionalista in Europa centro-occidentale, conclude Martinelli, potrebbe avvenire proprio nel Paese che, di recente, ha fatto tirare un sospiro di sollievo a chi temeva l’elezione di un presidente di estrema destra: l’Austria. La vittoria del verde Alexander Van der Bellen ai danni dell’ultranazionalista Norbert Hofer ha comunque regalato un 47% di consensi all’esponente dell’estrema destra in vista delle elezioni politiche del 2018: “Con un risultato del genere – spiega il docente – le forze progressiste austriache non possono presentarsi troppo tranquille alle urne. Ma questo avverrà solo nel 2018”.

Twitter: @GianniRosini

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