Leggendo proprio in questi giorni il libro di Jonathan Franzen Libertà, ho subito pensato alla storia della 13enne di Melito Porto Salvo, violentata per più di due anni da parte del branco. Ho soprattutto meditato sul silenzio della madre che sapeva ma ha taciuto e sulla reazione della comunità locale. Perché poi le storie non sono mai così lontane. Non ho ancora capito bene il senso della ‘libertà’ di Franzen. A me, la sua, sembra una “libertà” piuttosto beffarda. E Patty, la protagonista del romanzo, che cerca di liberarsi dall’opprimente famiglia di origine, dal mondo elitario e ipocrita in cui è nata e nel quale si è sempre sentita diversa, mal compresa e finanche respinta, mi ricorda molto Maddalena (nome di fantasia), la ragazza oggi 16enne che non ha certo vissuto in una nobile famiglia degli Stati Uniti, la cui madre è una politica di professione, ma l’esperienza post violenza che vivono le due è simile: uguale la reazione della famiglia che tenta di insabbiare tutto, identica la paura rispetto al giudizio della gente. Così come il contesto sociale e l’omertà che accompagna i due abusi.

Probabilmente, malgrado ogni tentativo conscio o inconscio, è impossibile fuggire dalle proprie origini e dal proprio mondo, e un certo tipo di libertà non può essere che il frutto di una illusione, dopo esperienze così forti. Anche Patty, come Maddalena, fu violentata da un ragazzo che conosceva. Le loro famiglie erano addirittura molto unite, almeno apparentemente. Tanto che quando Patty si sfogò prima con la sua insegnate di basket e poi con la sua mamma, quest’ultima ebbe una reazione incomprensibile. Consigliò a Patty di non parlarne con la polizia, non denunciare il fatto perché, tutto sommato, l’amicizia con la famiglia del tipo che aveva abusato di lei conveniva a tutti. Questione di voti. Senza contare che il fatto avrebbe rappresentato un vero disonore per gente come loro.

A Melito, paesino della provincia di Reggio Calabria, i genitori di Maddalena non rappresentano l’alta borghesia italiana eppure la parola discredito di fronte alle ben peggiori violenze di gruppo che la povera Maddalena è stata costretta a subire è la stessa che ha accompagnato i silenzi nella vicenda di Patty. Melito fa finta di non vedere, finché il caso non esplode e tutti i colpevoli vengono arrestati; la famiglia di Patty e quella di Maddalena cercano soluzioni bonarie per evitare il clamore mediatico e anche di perdere la faccia in città; le due ragazze hanno entrambe difficoltà a raccontare alla propria madre le violenze subite. Forse perché considerate troppo prese da questioni personali. L’unica cosa che manca nella storia di Patty è il rampollo della famiglia di ‘ndrangheta che incute timore. A Melito – dicono – la presenza del figlio del boss ha impedito ai genitori di denunciare subito gli abusi e alla ragazza di parlarne con qualcuno perché lui, quel Giovanni, faceva paura. La comunità è in silenzio – dicono – per colpa della ‘ndrangheta.

Io invece credo che le storie di Patty e di Maddalena, in contesti diversi e con diverse sfumature, siano molto legate. E stanno lì a dimostrarci che sia in casa, qui da noi, sia Oltreoceano, la violenza contro le donne, soprattutto fra quelle giovanissime, rappresenta ancora un tabù. Un motivo di vergogna, anche all’interno delle famiglie. Forse non abbiamo capito abbastanza cosa è accaduto a Melito di Porto Salvo. E non sappiamo cosa pensa Maddalena quando legge i nostri articoli. È facile spiegare tutto parlando di ‘ndrangheta. Noi giornalisti, in maniera certamente inconscia, troviamo questa scorciatoia per dare un senso ad ogni cosa che accade al Sud, in particolare in Calabria.

Eppure la città, contrariamente da quanto si è scritto, ha reagito. Quattrocento persone in piazza a Melito non sono poche, se si tiene conto che nel paese teatro delle violenze sulla minore vivono appena dodici mila persone, quindi molti sono imparentati con almeno uno degli undici indagati. Per questo chi è sceso in piazza ha avuto coraggio. Si tratta di gente che prima delle passerelle politiche, prima della discesa provvidenziale delle ministre, prima delle giornate nazionali per contrastare la violenza contro le donne, ci ha messo la faccia.

E ce la mette sempre. In questa triste storia ci siamo dimenticati tutti della protagonista, Maddalena, delle sue emozioni, del suo stato d’animo attuale. Non potendo scrivere ciò che pensa ci siamo messi a contare quante fiaccole erano accese e quanti, invece, hanno abbassato la tapparella preferendo il buio delle proprie coscienze. Il silenzio che ha avvolto questa storia non è il prodotto della società ‘ndranghetista. Per chiamarci fuori dall’inferno di Maddalena abbiamo parlato d’altro, come sempre. Pensate, per Patty non ci fu nemmeno una piccola manifestazione. Però presto andò via da quella casa dei genitori così distratti e fece molte esperienze. Spero che anche Maddalena abbia qualche passione che la porti a pensare a se stessa e a dimenticare l’incubo che ha vissuto. Così come mi auguro che a parte le sfilate nazionali venga fatto qualcosa di concreto per aiutare le donne, rafforzando i centri di ascolto pubblici e antiviolenza. Sapete, in Calabria, negli atti aziendali delle Asl calabresi non si è proprio tenuto conto dell’assistenza psicologica pubblica. Non chiamatela sempre ‘ndrangheta!

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