Il ruggito dei motori echeggia già in lontananza. Poi, sempre più vicino, su veicoli surriscaldati scende da valle il popolo dei vacanzieri. Stanno una settimana, un week end, il tempo di un tuffo. Si chiama agosto in Italia, un ritratto degno di Monicelli di quello che gli italiani sono disposti a sopportare per una manciata di centimetri di spiaggia, la tintarella perfetta. Arrivati sul lungomare inizia l’assalto all’ultimo parcheggio pagato a peso d’oro, disposti a diatribe furibonde in tedesco, mandarino o dialetto pur di spuntarla su chi ha avvistato per primo il posto libero. Il climax dello sclero si raggiunge intorno alle dieci. Il parcheggio è esaurito, clacson e sgommate nell’aria. Un sandwich di due auto ha bloccato la macchina di una famiglia olandese, hanno le valigie impilate di lato, non possono uscire.

I padri scaricano le famiglie ai bordi del marciapiede, tenteranno l’impresa da soli, senza la moglie impaziente e i bambini che gorgheggiano “possiamo scendere?”. I privilegiati arrivano a piedi da alberghi e seconde case del centro: prendisole colorato, zoccoletti di legno, hanno un’aria più distesa se si tralascia coccodrillo e granchio gonfiabili, dodici bambini al seguito con retino e secchiello, ombrellone, sdraio e borsa frigo.

Scendo in paese per una commissione in farmacia, azzardo un parcheggio last minute sul lungomare. Avvisto un posto tra due auto, metto la freccia a sinistra, faccio per imbucarmi. Troppo stretto. Ritorno in rettilineo, faccio i dieci all’ora. Dietro di me su un motorino una ragazza non gradisce il tentennamento, voleva superarmi a destra. Grida: “Puttana”. Faccio per inseguirla, ma il suo scooter è già lontano, amaro è in bocca il mio diritto di replica interruptus. L’umanità balneare si muove su binari diversi: camioncini della raccolta differenziata, sciami di Ape Piaggio truccate, manca solo un pick up carico di gitani e sarebbe il remake di Gatto nero, gatto bianco di Kusturica.

Spiaggia libera: spartiacque tra desperados e cumenda in vacanza. Ci si fa strada con la forza della determinazione, figli usati come scudi umani per conquistare il fazzoletto più vicino all’acqua. In un cheek to cheek col vicino di cui si possono avvistare i punti neri sulla faccia ancora bianchiccia, si stendono asciugamani da una piazza e mezzo comprati l’anno prima. Quando devi raggiungere il mare hai due opzioni: trasformarti in Ralph supermaxieroe o fare una doccia gelata sul cemento.

Alle undici lo scartocciare della carta della focaccia fa già la sua comparsa. I professionisti della spiaggia sfoderano torte di riso, frittate bisunte, frittelle di baccalà. Tu intanto hai la solita prugna schiacciata gocciolante nel sacchetto, al massimo un panino col pan bauletto che per farlo scendere ti servono almeno due medie. Esistono piccole oasi di felicità: due spagnoli svaccati su una poltrona verde pisello bevono Sangria già pronta in brick e fumano una canna guardando l’immenso. La signora veneta al loro fianco li gela con lo sguardo mentre il marito, in mezzo a tre figli sudaticci, darebbe un dito in cambio di una boccata.

Tra i tavoli dei ristoranti si pranza a tutte le ore, e mentre i clienti si sbrodolano con le linguine agli scampi, famelici ritardatari li fissano in attesa di prendere il loro tavolo. Intorno alle sei, le prime famiglie gettano la spugna. Paonazzi e bruciacchiati percorrono l’esodo alla rovescia. I volti fosforescenti tradiscono sfinimento, l’espressione è persa. Ci vorrebbe uno spritz, ma al supermercato l’Aperol è finito da luglio. Il Campari andrà bene lo stesso. Cena in pizzeria: i bambini scorrazzano e si inseguono in tutte le lingue del mondo, furie bionde dagli occhi di ghiaccio, camerieri che mangiano avanzi nelle cucine, impasti pesanti da digerire.

Si è fatto tardi, qualcuno balla il liscio nella piazzetta del lungomare, un paio di clown spaventano gli ultimi irriducibili, i più piccini in braccio già addormentati. Forse si riesce a vedere uno dei nostri alle Olimpiadi, ma è meglio andare a letto, domani sarà un nuovo giro di giostra. E le chiamano ferie.

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