Negli ultimi trent’anni c’è stato un assalto feroce e prolungato al tradizionale modello di università, bollato come vecchio e superato. Da dove l’attacco sia stato lanciato è controverso: la scuola degli economisti di Chicago? La Royal Society e la National Academy riunite? O il club Bilderberg? Poco importa. Hanno avuto un enorme successo, poiché la demolizione del ‘vecchio’ modello è stata accurata e sistematica; e condotta con teutonica dedizione applicando metodi da purghe staliniane, questa volta meno cruente: in fondo erano solo accademici da mettere da parte con le buone o le cattive, ma senza spargimento di sangue. L’Italia è rimasta un po’ indietro, ma sta cercando di adeguarsi. Non siamo nell’età della rottamazione?

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L’ascesa irresistibile dei manager e delle dottrine ‘gestionali’ avrebbe dovuto rendere le università più efficienti e produttive, più magre e trasparenti e, soprattutto, più ‘moderne’. Il ‘nuovo’ modello ha trovato supporto da parte della ‘politica del fare’ in cerca di consensi eccellenti; dall’industria delle ‘corporate’ sempre più orientata a guadagnare fette di potere in ambito formativo; e dalla rendita fondiaria, supportata dalla finanza creativa, che rendeva il mattone accademico un elemento di grande fascino e un tassello imprescindibile per chi si fosse impadronito della gestione manageriale degli atenei. In Inghilterra fu la signora Margaret Thatcher a iniziare la danza. Negli Stati Uniti, il processo è stato inesorabile a partire dalla presidenza Bush Senior in poi; e neppure l’amministrazione Obama, la meno liberista da allora, ha voluto cambiare la tendenza.

In pratica, le riforme gestionali hanno dato luogo a una serie di patologie e hanno prodotto effetti collaterali non banali. Il bullismo accademico si è diffuso, molte persone sono infelici, ancorché sempre più rinchiuse nel loro sfera personale di incomunicabilità. Ma la bolla del managerialismo sta anche minacciando la funzione storica dell’università quale istituzione dove la dedizione all’insegnamento, lo studio disinteressato e la ricerca critica erano i valori fondativi. E nessuno ha il coraggio di esaminare gli effetti concreti e tangibili dell’esperimento gestionale, che continua a vivere e prosperare sotto la bandiera di obiettivi eclatanti e gridati ma mai verificati.

Il concetto del ‘ruolo’ dei docenti è uno dei fondamenti della ‘vecchia’ università. Secondo la vulgata aziendalista, il lavoro ‘fisso’, l’agognato ruolo o ‘tenure’, garanzia di non licenziabilità, rende gli studiosi pigri e indolenti. Da insegnanti trascurano gli studenti e da ricercatori riposano sugli allori. Nella narrazione manageriale queste carenze sono state autorizzate, favorite e coccolate dal potere politico, sia perché culturalmente succube sia, soprattutto, perché impossibilitato a intervenire dalle regole di auto governo del mondo accademico, stabilite da leggi vetuste e, talora, perfino dalla costituzione degli stati moderni, compresa la costituzione italiana che garantisce la libertà di insegnamento, impossibile senza l’istituto della ‘tenure’.

Con queste premesse la riforma manageriale affronta in modo radicale la questione accademica, ben decisa a ‘mettere le cose a posto’ in modo strutturale, una volta per tutte. In Italia la rivoluzione iniziò subdolamente già con il ministero Berlinguer quasi vent’anni fa, ma con risultati impalpabili. E si sta concretando solo adesso, grazie all’impulso del ministero Gelmini, secondo un linea di pensiero seguita con scrupolo da tutti i suoi successori.

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