La settimana scorsa è stato approvato dalla plenaria di Strasburgo il Regolamento Ue che consente di incrementare l’importazione di 35.000 tonnellate di olio di oliva senza dazio (che vanno ad aggiungersi alle 56.700 già previste). Il provvedimento, proposto lo scorso settembre dalla Commissione europea, risponde alla necessità di sostenere l’economia della Tunisia e garantirne la stabilità della democrazia (l’unica tra i paesi che hanno fatto i conti con la “primavera araba”), indebolita dagli attacchi terroristici dell’Isis.

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A ciò bisogna aggiungere che le importazioni sono comunque necessarie per colmare un fabbisogno interno insoddisfatto dalla produzione. Infatti, limitando l’analisi all’Italia (ma il discorso non cambia molto se facciamo riferimento all’Ue), c’è da considerare che i consumi interni più le esportazioni (la media degli ultimi anni si aggira intorno alle 800.000 tonnellate), superano nettamente la produzione nazionale (la media degli ultimi anni è sotto le 400.000 tonnellate). Perciò l’incremento approvato, oltre a essere di modesta entità rispetto al fabbisogno complessivo, dovrebbe consentire un leggero risparmio ai consumatori, in quanto il prezzo di importazione diventa mediamente più basso.

Se la questione viene posta solo in questi termini, può risultare difficile comprendere appieno il clamore suscitato da questa notizia e ancora meno le proteste che arrivano un po’ da tutte le parti, a cominciare dalle organizzazioni dei produttori agricoli, compatte nel prendere posizione verso questo provvedimento. Anche il ministro Martina si è dichiarato contrario all’incremento del contingente di olio tunisino e annuncia controlli più intensi contro le possibili frodi che potrebbero innescarsi. Ci troviamo di fronte a una deriva autarchica oppure i rischi denunciati sono effettivi e l’olivicoltura italiana, già duramente provata negli ultimi tempi da avversità climatiche e burocratiche, ha solo da rimetterci?

Il problema, quando si parla di olio di oliva, è sempre lo stesso e si chiama scarsa tracciabilità, perché non ci sarebbe effettivamente nulla di male nel far entrare sul mercato un prodotto di cui siamo carenti, a patto che questo sia distinguibile chiaramente agli occhi di chi fa la spesa. Se è vero che l’Italia nell’ultimo anno ha esportato una quantità pressappoco uguale a quella prodotta e tenuto conto che una parte consistente di questa produzione viene assorbita dal mercato interno, è lecito ipotizzare che una pari quantità dell’olio importato finisca poi per essere esportata. Ed è abbastanza probabile che chi esporta dall’Italia olio importato da altri paesi, lo faccia con lo scopo di beneficiare indebitamente della buona reputazione del Made in Italy oleario. Non necessariamente ricorrendo alle frodi, dal momento che in etichetta l’obbligo di indicare la provenienza può essere ottemperato con diciture del tipo “miscela di oli di oliva originari dell’Unione europea e non originari dell’Unione”, e magari anche con marchio italiano in bella vista.

Ecco perché l’importazione senza dazi dell’olio tunisino rappresenta un problema, non certo l’unico e comunque non il più grande per gli olivicoltori italiani, fino a quando il mercato è un mare magnum dove l’olio, nei termini di legge, è tutto uguale, e i consumatori non possono scegliere avendo ben chiari tutti i fattori della qualità. Perché è incomprensibile che una filiera come quella olivicola, che in Italia può vantare centinaia di cultivar autoctone, adattatesi a condizioni pedoclimatiche estremamente diverse, non possa fare affidamento sulle peculiarità che ogni territorio, ogni produttore, anche di piccola scala, è in grado di esprimere e raccontare, anche attraverso l’etichetta.

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