Filodrammatici

L’Expo sta finendo e un anno se ne va. L’annosa questione è se “Next” sia la vetrina del teatro lombardo o un contributo a pioggia da parte di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia alle compagnie di Milano e dintorni. Quaranta (!) short teatrali (in questa edizione non bastavano, hanno aggiunto anche otto spettacoli del “Piemonte in scena”), di una ventina di minuti l’uno, su tre giorni (programmati negli spazi del Teatro Franco Parenti, Litta ed Elfo) per mostrare le opere che saranno, ma anche i materiali sui quali stanno lavorando i gruppi, le idee di messinscena che sarà. Piccoli flash su una decina di corti di una rassegna complessa ben organizzata e faticosa, un grande calderone senza selezione, un’accozzaglia che tutto accoglie in maniera indifferenziata.

Il Teatro delle Moire indaga sulle “Lacrime della sirena” con tutto il recondito magico e stregato della figura degli abissi che con il canto faceva affondare le navi. Sirena qui vista come accettazione delle differenze e delle difficoltà del vivere, un inno alla bellezza delle donne, nell’imperfezione, nell’età avanzata. Incuriosisce la performance sadomaso dei Claps, “Paradise” con un fagotto-bozzolo di plastica nera adamitica, sindone appiccicata con all’interno un corpo che si contorce, respirando affannoso nell’intento di liberarsi come Houdini, nei grugniti, nell’ansia da aria mancante, nella claustrofobia soffocante.

In tre testi si parla apertamente di “famiglia”. In “Bad & Breakfast”, proprio del Franco Parenti, Nel primo, colorato, svelto, testo veloce e agile, una coppia ha ereditato l’appartamento di famiglia dopo una tragedia occorsa ai genitori di lui: tra spunti dalla cronaca, gli attentati Isis, precariato, sensi di colpa generazionali, presa di coscienza e messa in discussione delle proprie vite standardizzate. Così come i Filodrammatici continuano, con successo, nel solco di una drammaturgia british, dal sapore inquieto e agrodolce. In “Parassiti fotonici” una coppia, diretta dal piglio brillante e dal ritmo incalzante di Bruno Fornasari, ci racconta come, in un prossimo futuro plausibile, sono riusciti a farsi una famiglia e a trovare una casa, tra compromessi, piccole felicità personali, egoismi che mettono a dura prova la coscienza. In “Miseria e Nobiltà” di Michele Sinisi, produzione Elsinor (debutterà in Sala Fontana il 15 dicembre) vincitore morale, se ci fosse una graduatoria, della manifestazione, il testo di Scarpetta si esalta nelle mani dell’attore pugliese diventando un grande gioco teatrale, scaltro, ironico, leggero e profondissimo, con gag, inserti, il tutto in una cornice fedele e stravolta, tradita e filologicamente corretta del dramma in forma di commedia partenopea. Non più solo napoletano si parla in questo basso; Sinisi ha frammentato in tanti dialetti riconoscibili le voci dei suoi bravi interpreti (Ciro Masella nella “lettera” di Totò e Peppino come in quella di Troisi-Benigni) in un impianto povero d’oggetti ma illuminante di piccole trovate, come la botola dalla quale lo stesso regista (che sarà il bambino Peppiniello, che racconta tutta la vicenda in una sorta di flashback ad intermittenza) dà luce, o la toglie, come un oblò sul mondo, come la macchina da presa in Nuovo Cinema Paradiso.

Vogliamo sottolineare anche il prezioso lavoro di alcuni attori, che in definitiva sono la colonna vertebrale del teatro: Enrico Sortino in “Talking Guccini”, un nuovo Elio Germano, Debora Zuin in “Un altro Amleto”, grande vena umoristica e noir, Diego Runko nel bilingue “Esodo”, storia istriana di macerie e divisioni.

Mentre ne “La figlia del vento” dell’Atir, la penna di Michele Santeramo, qui ancorata ad una storia vera, con dei paletti saldi, senza virare nel lirico, riesce con enfasi, e anche facile commozione, a tratteggiare la vicenda di Samia passata dalle Olimpiadi, mezzofondista per la Somalia (con tempi di qualificazione altissimi), alla morte nelle acque del Mare Nostrum. Il titolo è la traslazione dell’appellativo dato negli anni ’80 a Carl Lewis. La regia di Serena Sinigaglia ci porta in un cantiere stradale (grintosa Chiara Stoppa) dove assi conficcate al suolo come croci, diventano ponte traballante verso una terra promessa, che tale rimarrà.

Ambientazione interessante di matrice brechtiana “La bottega del caffè” di Manifatture-Litta-Grock, non riproposto alla vecchia maniera stantia di calli veneziane, ma trasportata in un bar-casinò-club squallido di periferia tra paillette e slot machine, maschere da Banda Bassotti e divise naziste, prostitute e roulette: forse l’equivoco di fondo può essere proprio la così netta e distante direzione intrapresa, così lontana da Goldoni. Continuano a convincerci i Lab 121 che, dopo “L’insonne” dalla Kristof, con il consueto tormento interiore, portano in scena “Ritratto di donna araba che guarda il mare”, di Davide Carnevali, Premio Riccione, dove tra atmosfere che ci ricordano “Lo straniero” di Camus, il concetto di “normalità” viene stravolto e relativizzato, dove la cultura non viene derubricata a folclore, in quella percezione di incomunicabilità tra popoli così lontani così vicini da una parte, di infinito e complicato rispetto dall’altro: l’integrazione passa da qui. Chiudiamo con il commovente “La Sirenetta” del gruppo Eco di fondo sul sentirsi diversi (se vogliamo possiamo costruire un parallelismo con “Le lacrime della sirena” delle Moire), tra ironia soffice e dramma feroce, partendo dai casi di cronaca di adolescenti che si sono tolti la vita perché si ritenevano “sbagliati”, emarginati e non accettati, a scuola, a casa, dagli amici, a causa dell’essersi scoperti omosessuali; la sirena soffre per il suo essere a metà, relegata in fondo al mare, costretta ad un canto straziante.

Ragazza araba che guarda il mare

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