Parte oggi a Miami l’undicesimo round di negoziazioni del Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che vede protagonisti l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Il decimo si era tenuto a Bruxelles, a metà luglio: questo sarà dunque il primo incontro dopo lo scandalo Volkswagen. I team di negoziatori assicurano che non ci saranno ripercussioni sul cammino del trattato, che tuttavia sembra aver rallentato la sua spinta propulsiva rispetto a qualche mese fa, quando le parti in causa auspicavano una chiusura dell’accordo entro la fine dell’anno. Oggi appare a rischio anche la scadenza del 2016.

Oltre tre milioni di firme raccolte attraverso l’iniziativa dei cittadini europei (Ice) per chiedere alla Ue un immediato stop delle trattative sono state consegnate poco più di una settimana fa alla Commissione Europea a Londra e Bruxelles. Mentre un fiume di 100mila persone (250mila per gli organizzatori) sfilava tra le strade di Berlino, qualche giorno dopo, per esprimere la propria contrarietà al trattato. Il rumore generato dalle molteplici iniziative che si susseguono da mesi nel Vecchio Continente ha portato il trattato al centro del dibattito europeo, accendendo i riflettori su quanto sta accadendo a Bruxelles e sull’operato dei commissari. Cecilia Malmström, il commissario europeo al commercio, “riceve ordini direttamente dai lobbisti di Bruxelles”, ha accusato John Hilary, executive director della rete anti-povertà e anti-Ttip War on Want. Secondo il rapporto Public Services Under Attack – Ttip, Ceta, and the secretive collusion between business lobbyists and trade negotiators, pubblicato da Corporate Europe Observatory, Associazione internazionale tecnici, esperti e ricercatori (Aitec), War on Want e altre organizzazioni, gli accordi commerciali dell’Unione europea con Usa e Canada “potrebbero mettere in pericolo i diritti dei cittadini ai servizi di base come l’acqua e la sanità“. Il rapporto intende attirare l’attenzione sull’estrema vicinanza tra i negoziatori e le grandi imprese, che puntano alla massima apertura dei mercati in settori di utilità pubblica, tra cui anche la cultura e i servizi postali.

Sprechi, inefficienze e corruzione non contribuiscono a migliorare la percezione dei cittadini europei nelle istituzioni dell’Unione, che, incapace di parlare con una sola voce, deve fare i conti anche con un’opinione pubblica da tempo non benevola. Ed estremamente attenta ai rischi che il trattato potrebbe portare con sé. “La Commissione Europea non negozierà sugli standard di sicurezza del cibo. Siamo quindi sullo stesso piano di coloro che, sabato scorso, hanno dimostrato a Berlino per difendere la sicurezza del cibo europeo”, ha dovuto ribadire il commissario per la salute e la sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis. Quanto alle critiche sulla secretazione dei termini della negoziazione e sul mancato coinvolgimento dei governi, “dobbiamo incoraggiare gli Stati membri ad essere più attivi nel valutare la situazione”, ha sostenuto Andriukaitis, rimbalzando le responsabilità sulle controparti.

Ma l’accordo è finito nelle secche anche in virtù del relativo disinteresse degli Usa, fino a oggi fortemente concentrati sull’approvazione del trattato transpacifico siglato poche settimane fa con Giappone, Australia, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Per Washington il Tpp cambia gli equilibri commerciali, apre le porte del mercato agricolo giapponese e canadese, rafforza i diritti di proprietà intellettuale per le società farmaceutiche e tecnologiche. E, visto che la Cina ne è esclusa, aumenta il peso specifico degli Stati Uniti nella regione. Un colpo importante per l’amministrazione Obama.

Le resistenze tra Europa e Usa si articolano sui due filoni. Il primo è l’agricoltura. Attualmente gli scambi di prodotti agricoli e alimentari tra l’Europa e gli Stati Uniti sono relativamente pochi. Circa l’8% delle importazioni agroalimentari dell’Ue arrivano dagli Stati Uniti e il 13% delle esportazioni europee agroalimentari si dirige verso il mercato statunitense. Le tariffe doganali sono molto alte e in molti casi sono previste delle quote. Ma più che i dazi doganali sono le barriere non tariffarie a ostacolare gli scambi e a tenere in scacco i negoziatori. Sono cioè le misure sanitarie, fitosanitarie e ambientali, che includono l’embargo degli Stati Uniti sulla carne bovina europea introdotto a seguito dello scoppio della mucca pazza e il divieto di utilizzo dell’acido lattico come esaltatore di sapidità nell’Unione europea, misura che ha impedito finora lo scambio di alcune varietà di carni. Ogm, ormone della crescita, ractopamina, uso di pesticidi e additivi, riduzione degli agenti patogeni hanno tenuto banco negli ultimi mesi nei corridoi della Commissione europea, se è vero, come riportato da alcune fonti interne, che gli incontri istituzionali con l’industria agricola sono stati più di tutti quelli degli altri settori.

Altro nodo riguarda invece l’Investor-state dispute settlement (Isds), il particolare meccanismo di arbitrato internazionale che darebbe la possibilità alle aziende di citare in giudizio interi Paesi e governi anche sulle espropriazioni indirette di utili futuri, ma non permetterebbe il contrario. In questo caso a guardare con interesse la partita, e in qualche caso a giocarla direttamente con azioni di lobbying, sono i grandi studi legali internazionali, per i quali si moltiplicherebbero i mandati e gli introiti. Già in vigore nel Nafta, l’area di libero commercio nordamericana, rispetto alle aziende della nazione chiamata in causa metterebbe in una posizione di forza gli investitori esteri, che dovranno essere trattati secondo il principio della nazione più favorita: vale a dire che potranno essere utilizzate le protezioni previste da ogni altro trattato firmato se favorevole, compresi i trattati precedenti. Le clausole Isds hanno portato negli ultimi anni alla citazione dell’Argentina da parte della società assicurativa Continental Consultancy e dell’Australia da parte di Philip Morris. Da chiarire anche il tema dell’indipendenza degli arbitri: il presidente della Banca Mondiale, nominato dagli Usa, in appello sceglie i tre arbitri che dovranno dirimere la questione. E mentre gli Stati Uniti non hanno perso mai una causa, le sue multinazionali spesso hanno vinto i loro arbitrati nei confronti di altri Stati. In Europa l’attenzione resta alta su questo fronte: è di queste settimane la citazione della Romania da parte del gruppo minerario canadese Gabriel Resources, che chiede oltre 4 miliardi di dollari a titolo di risarcimento per un permesso di scavo che tarda ad arrivare per ragioni ambientali, dopo circa 550 milioni di investimenti.

Nel round di negoziazioni partito lunedì, come da calendario, ci si focalizzerà anche sullo sviluppo sostenibile. E a questo proposito sarà inevitabile che si parli anche del prossimo Cop21, la Conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà tra un mese a Parigi, e che non parte con i migliori auspici. Gli amministratori delegati delle dieci società petrolifere che fanno parte dell’Ogci (Oil and gas climate initiative) hanno dichiarato l’intento di raggiungere, durante l’assise, un accordo efficace sul clima: si tratta di Bg Group, Bp, Eni, Pemex, Reliance Industries, Repsol, Saudi Aramco, Shell, Statoil e Total. Non pervenute, invece, ExxonMobil e Chevron, le due maggiori compagnie Usa del settore oil & gas.

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