Mi ha sempre annoiato la poesia che sa parlare soltanto di poesia. O di poeti, dei loro ombelichi e di ciò che fan passare sotto il nome di sentimenti (anche se altro non è, che veloce e superficiale sommovimento d’animo, o commozione subitanea nutrita d’ipocrisia).

cop_ogermania_1Sanguineti chiamava questa cosa il ‘poetese’. E una delle cose che più mi è rimasta impressa degli incontri con maestri come Sanguineti, appunto, o Zanzotto, Leonetti, Fortini, è che incontrarli significava esser certi che non si sarebbe parlato di poesia, ma di tutt’altro, meno che mai della ‘loro’ poesia.

Non si parlava di poesia, ma ‘in poesia’, o, se preferite, poeticamente…

Era questo che rendeva tanto emozionanti quegli incontri: la possibilità di guardare al mondo da un’ottica particolare, quella della poesia, pronta a ogni imprevisto e lesta al ribaltamento del ‘senso comune’.

L’evidente latitanza della maggior parte dei poeti dal dibattito culturale, politico e sociale del presente può difficilmente essere giustificata dalla presa d’atto che sembrano essere tramontate tutte le utopie, che non ci sia più spazio per alcuna ‘narrazione’.

La poesia impegnata non è quella che fa da megafono a questa, o quell’ideologia (o utopia), bensì uno strumento di conoscenza acuto e insostituibile che, proprio quando sono assenti le ‘grandi narrazioni’, avrebbe il dovere d’essere più presente e disponibile a non rinchiudersi all’interno del ghetto malinconico della ‘letteratura’.

Né sarà possibile immaginare una poesia davvero ‘efficace’ e ‘decisiva’ se essa non saprà dialogare con l’altro da sé: se il discorso della poesia non saprà fondersi con quello della scienza, ad esempio, o con quello dell’economia (e penso qui al Senhal di Zanzotto, o al Fecaloro di Pagliarani).

Sono rimasto quindi colpito da due raccolte molto particolari e, a mio giudizio, bellissime:O Germania‘ di Franco Buffoni (ed. Interlinea) eLa misura dello zero di Bruno Galluccio (ed. Einaudi).

Buffoni realizza un libro assolutamente originale, fatto dell’unione di una serie di brevi, fulminanti prose, seguite da gruppi di poesie (alcune già edite e qui ricontestualizzate) che costruiscono un discorso compatto e avvolgente sul ruolo tedesco nell’attuale crisi europea. E se le prose mostrano una lucidità analitica anche a livello più squisitamente economico, storico, direi antropologico (chiamando in causa il Khol che definì i tedeschi un “popolo di pecore sanguinarie”, o Fischer: «la Germania rischia di affossare l’intera Europa per la terza volta in un secolo ») sono le poesie a chiudere spietatamente il cerchio e ad offrirci una stupefacente fotografia delle contraddizioni (prima di tutto culturali) che questa Germania trascina con sé, troppo impaurita per prenderne coscienza.: «(…) la sua meticolosità nell’efficienza / Mi appare per quel che è / – Nevrosi da obbedienza – / Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia / Già hai dato il meglio, non strafare». Ma penso anche a testi efficacissimi come ‘Angst, Capelli biondi su naso prominente’, o ‘A Villa triste’.
Dall’orrore nazista al miracolo economico, tra il Benjamin suicida a Port Bou e i paesaggi impressionisti di Slevogt, l’anima tedesca viene messa a nudo e sezionata, per comprenderne fragilità, genialità, diversità.
lamisuradello0La poesia di Buffoni, insomma, riflette sul presente e smaschera ciò che di questa crisi nessuna analisi economica o politica potrà mai mostrarci, cioè ciò che, infine, sarà altrettanto decisivo nella scelta degli uomini (e dei popoli) nel loro fare e farsi Storia.

A tutt’altro è dedicata la silloge di Galluccio, fisico tanto quanto poeta. I protagonisti sono gli elementi materiali, nel loro essere indagati e conosciuti dalle matematiche e dalla fisica, e una quotidianità scabra ma intensissima. A venire in mente è immediatamente il Roubaud matematico e poeta, membro di OuLiPo e fondatore di ALAMO (Atelier de Littérature Assistée par les Mathématiques et les Ordinateurs). Ma sarebbe indicazione fuorviante.
Ciò che interessa davvero a Galluccio non è elaborare sofisticati algoritmi matematici per fare da pattern alla generazione della sua poesia, quanto utilizzare, in modo assolutamente promiscuo, ciò che matematica e fisica hanno in comune con la poesia: l’immaginazione, spesso assolutamente contro-intuitiva, così come la fisica dei ‘quanti’.
Elementi chimici e bio-chimici, particelle e stelle, forze e modelli che stanno alla base del tentativo delle scienze di comprendere la natura e le sue leggi fondamentali diventano protagonisti di liriche dove si mescolano a interiorità quotidiane spesso dolenti, a corpi innamorati e a sguardi colmi di nebbia e a volte di rabbia, dove i sentimenti e la loro materialità chimica si impastano (anche linguisticamente) in un presente (in un qui ed ora) invisibile appena prima che le parole iniziassero a scavarlo: «mentre noi seduti abitiamo le costole / immaginiamo l’interno delle nostre vene / che si diramano verso l’alto / pensiamo i neuroni / che ora si stanno raffigurando il cervello», (in una dialettica dentro/fuori che è squisitamente poetica), ed ancora: «fu scoccata al big bang la freccia del tempo / e segna ancora oggi la nostra direzione / e pure fu lanciata la freccia dell’entropia / per cui la tazza che si infrange non si ricompone. / (…) / ma noi ci sentiamo a volte perduti / in questo vincolo primario / e proviamo una strana nostalgia / di un ambiente pienamente euclideo // l’insofferenza di non potere muoverci / avanti e indietro come per gli spazi / quella baia di possibilità perdute».
Il risultato è un libro stupefacente nella sua maturità e nella sua capacità di montare un meccanismo di comunicazione ‘complesso’, un discorso che non è mai meno che doppio, biplanare, che rifiuta il simbolo e la sua supposta ‘organicità’, per affidarsi, più semplicemente, alla materialità metonimica delle parole (e delle cose) e alla loro capacità di farsi allegoria e di istigare a una lettura appassionata, dal primo all’ultimo verso, dal primo all’ultimo ‘quanto’ di sentimentalità.

In entrambi i casi, insomma, ci troviamo di fronte alla dimostrazione palese che il discorso poetico è sempre un discorso sul mondo, prima che sull’io di chi lo vive (e la scrive).

Che la poesia, quando parla davvero, parla d’altro, per mostrarci ciò che nessun altro vede, ma che è indispensabile vedere.

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