Lo scorso settembre, a Denver in Colorado, un gruppo di cento papà si è incontrato per il ritrovo annuale organizzato dal Network Nazionale dei ‘Mammi’ (non esiste una traduzione migliore per l’inglese at-home dad). In America, secondo uno studio dello scorso giugno, i papà che restano a casa ad accudire i figli rappresentano il 16%, e questo dato non tiene conto di quelli che, nonostante siano i principali caretakers, lavorano part-time. Per il 70% è una scelta, e non una conseguenza della crisi economica. Da uno studio del Boston College, la maggior parte dei padri che lavora a tempo pieno resterebbe volentieri a casa, se solo lo stipendio delle moglie lo consentisse.

E’ un cambiamento dalle vaste proporzioni che sfida il pregiudizio sociale. Ancora oggi è opinione diffusa che un papà non sia in grado di badare ai figli (per lo meno non bene quanto la mamma) o che quando lo fa, ci sia lo zampino della madre a dirigere i lavori da lontano.

Molti sono convinti che un uomo non sia in grado di cambiare pannolini, sia una frana a scegliere i vestiti per sua figlia, scordi facilmente un ingrediente nel preparare la pappa.

Nella sfera lavorativa le cose non stanno meglio. L’università di Toronto ha recentemente rivelato che quando le donne parlano al lavoro dei propri figli non vengono considerate lavoratrici peggiori di quelle che non lo fanno, ma donne migliori; mentre se lo fa un uomo, viene valutato inferiore sia come impiegato che come uomo in sé. Peccato. Perché le ricerche recenti mostrano che le figlie di padri presenti e disposti a partecipare in misura paritaria al ruolo di genitori, risultano più sane e con maggiore autostima.

Almeno in America (in Italia non esistono grandi statistiche in merito e si fatica anche solo per stare a casa una manciata di giorni dopo la nascita) l’immagine dell‘uomo in carriera capace di essere anche un padre partecipe sta prendendo piede, come dimostrano le nuove politiche lavorative di aziende come Facebook o Change.org, che prevedono nei contratti generosi congedi parentali.

Come vivono le donne questo cambiamento? Quando le donne rimanevano a casa a dirigere il focolaio domestico, non era – per la maggioranza dei casi – una loro scelta. Nell’America degli anni ’50 e ’60 la politica di tumulare le donne come casalinghe (trasformandole nel 75% del potere d’acquisto) partiva già dalla scuola, e le pubblicità erano piene di donnine felici dentro il loro “castello” in attesa del marito-principe di ritorno dal lavoro.

Gli uomini di oggi scelgono di starci, il che pone la loro posizione in tutt’altra prospettiva, quella della libera scelta appunto.

Posto che tutti siano soddisfatti nello scambio ‘donne fuori e uomini dentro casa’… possiamo dire di essere all’alba di un inaspettato happy ending? Le donne sono pronte a non vedersi più come riferimento dei propri figli, l’angelo dal quale tutti corrono quando c’è un problema? Molte, ancora no.

Pur contente del proprio ruolo di lavoratrici, quando il bambino è ammalato, vogliono essere loro a portarlo dal dottore, anche se il marito sarebbe ugualmente in grado di farlo. L’attacco a uno status quo consolidato nei secoli, può minare le certezze (anche illusorie) con le quali hanno convissuto uomini e donne. Un uomo in grado di cucinare meglio di una donna non è certo visto con troppa simpatia in alcuni ambienti domestici; e d’altro canto, quando le donne cominciano a scalare le posizioni aziendali, i colleghi cominciano a sentirsi mancare la terra sotto i piedi.

Ma il progresso sociale e culturale non può essere fermato e allora meglio smollare le antiche convinzioni per crearne di nuove siglate da entrambe le parti.

Stasera intanto, cucina mio marito.

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