Non sono bastate oltre sette ore di interrogatorio per convincere la Procura di Taranto dell’innocenza del governatore di Puglia Nichi Vendola, accusato di concussione al termine dell’inchiesta “ambiente svenduto” sull’Ilva di Taranto. Un interrogatorio caratterizzato da “troppi non ricordo”, che secondo fonti investigative oggi si sono tradotti per il leader di Sinistra ecologia e libertà nella richiesta di rinvio a giudizio. Per il pool di magistrati guidati dal procuratore Franco Sebastio, infatti, Vendola in accordo con Fabio Riva, proprietario della fabbrica, e l’ex potente responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà ha abusato “della sua qualita di Presidente della Regione Puglia” e “mediante minaccia implicita della mancata riconferma nell’incarico” di direttore dell’Arpa Puglia, ha costretto Giorgio Assennato ad “ammorbidire” la posizione della’agenzia regionale di protezione ambientale “nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’impianto siderurgico dell’Ilva s.p.a. ed a dare quindi utilità a quest’ultima, consistente nella possibilità di proseguire l’attività produttiva ai massimi livelli, come sino ad allora avvenuto, senza perciò dover subire le auspicate riduzioni o rimodulazioni”. Vendola si difende: oltre all’ambiente, dice, “abbiamo difeso la fabbrica e i lavoratori: se questo è un reato sono colpevole”.

Assennato con una nota del 21 giugno 2010 aveva suggerito “sulla scorta dei risultati dei campionamenti della qualità dell’aria eseguiti dall’Arpa nell’anno 2009 che avevano evidenziato valori estremamente elevati di benzo(a)pirene, l’esigenza di procedere ad una riduzione e rimodulazione del ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico di Taranto”. Un’ipotesi che aveva mandato su tutte le furie i Riva e lo stesso Vendola che il giorno dopo, il 22 giugno 2010, in un incontro con gli assessori Nicola Fratoianni e Michele Losappio, aveva “fortemente criticato” l’operato dell’Arpa e sostenuto che ‘cosi com’è Arpa Puglia può andare a casa perché hanno rotto…’” ribadendo che “in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni”. Non solo. I pm scrivono che dopo sole 24 ore Vendola ha convocato il direttore scientifico dell’agenzia, Massimo Blonda, “per ribadirgli i concetti espressi nell’incontro” del giorno precedente. Infine, il 15 luglio successivo, aveva indetto una riunione informale alla quale hanno partecipato anche i Riva, Archinà e l’allora direttore dell’Ilva Luigi Capogrosso, mentre Giorgio Assennato, “che pure era stato convocato” era stato lasciato fuori dalla stanza e “ammonito dal dirigente Antonicelli, su incarico del Vendola, a non utilizzare i dati tecnici sul benzo(a)pirene come ‘bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano’”. Accuse gravi, insomma, per le quali Nichi Vendola rischia di finire sotto processo.

La difesa di Vendola: “Per decenni troppi hanno taciuto. Io no”
Vendola si difende e contrattacca: “Per decenni – dice – a Taranto nessuno ha visto niente e troppi hanno taciuto. Io no. Per decenni gli inquinatori hanno comprato il silenzio e il consenso politico, sociale e dei media. Con regali, finanziamenti, forniture, subappalti e favori. Io no. I miei collaboratori no. Infatti non siamo accusati di corruzione. Siamo accusati di essere stati compiacenti, a titolo gratuito, nei confronti del grande siderurgico”. “Accusati in un processo in cui tutti i dati del disastro ambientale – sottolinea Vendola – sono il frutto del nostro lavoro e della ostinata volontà della mia Amministrazione di radiografare e documentare l’inquinamento industriale nel capoluogo ionico. Noi, insieme alle agenzie della Regione Puglia, abbiamo fornito le prove che hanno scoperchiato la realtà”. Sono state le giunte guidate da Vendola, spiega il governatore, che “per la prima volta nelle istituzioni” sono stati aperti “i dossier su diossina e altri veleni – e lo abbiamo fatto anche sulla spinta di un movimento nato dalla ribellione al destino di morte della città. Noi abbiamo cercato le evidenze scientifiche sul male sputato dall’Ilva, e abbiamo varato leggi e regolamenti che sono oggi all’avanguardia della legislazione ambientale”. 

“Se difendere la fabbrica e i lavoratori è reato sono colpevole”
Il leader di Sel spiega le sue azioni, dunque, nel quadro di soluzione della crisi occupazionale, oltre che ambientale: “Certo, contemporaneamente abbiamo difeso la fabbrica e i lavoratori. Se questo è un reato sono colpevole” scrive il presidente della Puglia. “Ma abbiamo agito – aggiunge – nel rispetto di quei principi costituzionali che ci prescrivono di contemperare beni e diritti fondamentali per i cittadini, come salute e lavoro. Questo è il preciso dovere di chi governa, anche affrontandone le responsabilità e le conseguenze più dolorose”.

Chiesto il processo anche per altri 49
La stessa richiesta è stata formulata per gli altri 49 indagati e per le tre società (Ilva, Riva Fire e Riva Forni Elettrici) finite nell’inchiesta all’atto di chiusura delle indagini. La Procura di Taranto, infatti, ha chiesto il rinvio a giudizio anche per Emilio, Nicola e Fabio Riva accusati di associazione a delinquere insieme ad Archinà, al direttore Capogrosso, al consulente legale dell’azienda Francesco Perli e a cinque fiduciari, finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Non solo. Fabio Riva e Archinà dovranno rispondere anche di corruzione in atti giudiziari per aver versato secondo i pm una tangente da 10mila euro a Lorenzo Liberti, docente universitario e all’epoca dei fatti consulente della procura che indagava sulle emissioni della fabbrica.

Rischiano il processo anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno e l’ex presidente della Provincia, Gianni Florido. Stefàno è accusato di omissioni in atti d’ufficio, perché in qualità di primo cittadino e quindi di autorità locale avrebbe omesso di adottare provvedimenti per “prevenire e di eliminare i gravi pericoli” derivanti dall’allarmante situazione di emergenza dovuta ai veleni dell’Ilva di cui era a conoscenza. Un atteggiamento omissivo, che secondo i magistrati, avrebbe procurato alla famiglia riva e all’Ilva un vantaggio economico visto che non sono stati abbassati i livelli produttivi. Florido, finito in carcere il 15 maggio 2013 è accusato insieme all’ex assessore all’Ambiente, Michele Conserva, e ad Archinà, di tentata concussione: secondo le dichiarazioni del dirigente Luigi Romandini, Florido a Conserva avrebbero fatto pressioni perché il dirigente rilasciasse l’autorizzazione alla discarica Ilva per permettere all’azienda di smaltire i rifuti all’interno risparmiando così milioni di euro. Richiesta di rinvio a giudizio anche per Luigi Pelaggi, ex capo della segreteria tecnica del ministro Stefania Prestigiacomo e membro della commissione che nel 2011 rilasciò l’autorizzazione a produrre all’Ilva.

Aggiornato da Redazione web alle 17.42 del 6 marzo 2014

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