“Il sogno […] è narrativo per eccellenza. Narrare è della stessa base latina gnarus, ‘colui che sa’, ‘che ha cognizione’, e il sogno ha, porta conoscenza e comprensione delle cose, induce all’azione, apre al futuro”. In questa frase c’è forse il senso più profondo di un bel saggio che ho letto di recente, Il sogno della letteratura – Luoghi, maestri, tradizioni, scritto da Daniela Marcheschi e edito da Gaffi.

Il libro è una summa trentennale del pensiero dell’autrice, che è italianista, nonché esperta di letterature scandinave, ed è stata, tra le altre cose, curatrice dei Meridiani Mondadori dedicati a Giuseppe Pontiggia e a Collodi. Una passeggiata letteraria tra i nomi degli scrittori e dei critici che hanno popolato gli ultimi decenni di storia italiana in cui si tenta di fare il punto sul ruolo della critica, sulle ragioni di un indebolimento culturale, su cosa resta della tradizione e sulla responsabilità che è delegata alla parola e alle arti. Una lettura in cui si cerca a ogni pagina di dare risposte a interrogativi basilari che riguardano lo statuto dell’arte, con un gusto per la definizione che porta, per esempio, ad affermazioni come “la critica è l’arte di scoprire l’arte nell’arte”.

C’è una parola che si impone in queste pagine, ed è la parola “responsabilità”, ossia la condizione di chi ha un ruolo e come tale deve rendere conto di atti e situazioni in cui svolge una parte determinante. Tanto gli autori, quanto i critici e i lettori, sembra dire Daniela Marcheschi, hanno vissuto anni di progressiva esenzione, anni in cui l’industria culturale ha posto il gusto e lo studio su un piano inferiore al mero narcisismo. “Alcuni scrittori di oggi sembrano non credere più nella letteratura”, scrive l’autrice; non credere più nella letteratura significa non porsi più, quando si produce un’opera letteraria, l’obiettivo che ogni scrittore dovrebbe tenere sempre a mente, cioè credere che col fare letteratura si possa cambiare il mondo. Un obiettivo che alle orecchie di un pubblico distratto da centomila passatempi inconsistenti può suonare come irrealistico, ma che è in realtà l’unico vero statuto fondativo della vera letteratura. Il moderno approccio privo di coscienza, invece, ha come risultato “quello di una letteratura che sembra piuttosto ‘l’idea’ della letteratura, compiaciuta, letteraria”, una produzione convenzionale e del tutto congeniale a un sistema che, anziché produrre cultura per trarne nutrimento, ne fa vuoto consumo.

Ecco allora edificarsi quello che Daniela Marcheschi definisce “il regno degli epigoni”, vale a dire la valanga di autori che fanno confusione tra letteratura e letterarietà e che tuttavia riscontrano i favori del pubblico. E non sfugge neppure alla responsabilità del critico, che è anche quella di fare i nomi, di indicare cioè coloro che sono afflitti dalla malattia della convenzionalità, del cliché, del rifugio consolatorio (Paola Capriolo, Andrea de Carlo), o ancora di quella “letteratura della piacevolezza” ispirata dall’opera di Umberto Eco, “divertissement intelligente e accattivante che non scopre niente”, fino a confutare collettivi come Luther Blissett e Wu Ming i cui furori, a suo dire, appaiono “non solo assoggettabili a un’abile strategia di marketing, ma anche astratti nel loro paternalismo da ‘accademia’ o gruppo pago di sé”.

Una raccolta di riflessioni a tutto tondo, dunque, che ha il dono di indicare, una a una, tutte le debolezze culturali italiane, ma che non si sottrae al confronto e, soprattutto, che tenta di tracciare dei percorsi possibili, per esempio immaginando una nuova fondazione del patto tra autori e critici: “Ogni generazione ha il dovere di riconoscere, formare, nutrire e tollerare […] non solo i propri narratori o poeti valenti, ma anche i propri critici valenti: altrimenti la letteratura muore”.

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