Terremoto Cei. Papa Francesco ha nominato monsignor Mariano Crociata, fino a oggi segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. Una nomina che suona come un amoveatur senza però promoveatur per il numero due della Cei che, appena due mesi fa, era stato prorogato sine die da Bergoglio nel suo ruolo di segretario dei vescovi italiani. Fu proprio Crociata a firmare, pochi minuti dopo la fumata bianca del 13 marzo scorso, il comunicato-gaffe della Cei con il quale i vescovi italiani salutavano l’elezione di Angelo Scola come nuovo Papa. “Un passaggio fisiologico” definisce, invece, Crociata questa sua nomina. “In questa circostanza – afferma l’ex numero due dei vescovi italiani – si fa più avvertita in me la percezione, non solo mia, che quelli che viviamo sono tempi di grandi cambiamenti per la Chiesa. La figura di Papa Francesco ha impresso un’accelerazione e una nuova direzione a un processo già in atto, mostrando come la Chiesa può essere soggetto di una trasformazione che conosce molteplici fattori di tipo culturale, sociale ed economico”.

Sul futuro della Cei le idee di Papa Francesco sono abbastanza chiare e il trasferimento di Crociata a Latina è solo un tassello dei grandi cambiamenti che modificheranno radicalmente il volto della Conferenza episcopale italiana. Bergoglio, che dal 2005 al 2011 ha guidato la Conferenza episcopale argentina, vuole, infatti, che siano i vescovi della Penisola a eleggere il presidente e il segretario della Cei, così come avviene in tutte le altre nazioni del mondo. Francesco pensa anche che il segretario potrebbe essere un sacerdote e non per forza un vescovo. Per questo è necessario modificare al più presto lo statuto attuale per poter procedere alle elezioni. Per la successione ad Angelo Bagnasco è in pole position l’arcivescovo di Chieti-Vasto, il napoletano Bruno Forte, non a caso scelto da Bergoglio come segretario speciale del Sinodo dei vescovi straordinario del 2014 sulla famiglia.

Forte, teologo di fama internazionale, è profondamente legato al cardinale gesuita Carlo Maria Martini con il quale ha collaborato nella stesura di molte lettere pastorali per la Chiesa ambrosiana. E’ stato l’unico vescovo non cardinale a essere eletto dai confratelli italiani come padre sinodale nell’ultima assemblea che si è svolta un anno fa in Vaticano. La sua candidatura è a oggi quella che potrebbe ricevere il maggior numero di voti tra l’episcopato italiano. Nell’incertezza più totale che avvolge il vertice della Conferenza episcopale italiana che non è riuscito a sintonizzarsi sulle frequenze rivoluzionarie di Bergoglio, è direttamente il Pontefice argentino e primate d’Italia a svolgere nei fatti il ruolo di Bagnasco. In questo senso sono stati eloquenti i primi tre viaggi di Francesco nella Penisola e l’incontro con Giorgio Napolitano giovedì scorso al Quirinale.

A Lampedusa, l’8 luglio scorso, davanti alla tragedia continua degli immigrati morti in mare, Francesco ha condannato duramente “la cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”. A Cagliari, il 22 settembre scorso, Bergoglio ha messo il dito nella piaga della disoccupazione sottolineando con forza che “non c’è speranza sociale senza un lavoro dignitoso per tutti”. Il Papa ha precisato che “specialmente quando c’è crisi e il bisogno è forte, aumenta il lavoro disumano, il lavoro-schiavo, il lavoro senza la giusta sicurezza, oppure senza il rispetto del creato, o senza rispetto del riposo, della festa e della famiglia“. E, infine, ad Assisi, il 4 ottobre scorso, dinanzi al premier Enrico Letta, Francesco ha rivolto il suo appello affinché “in Italia ciascuno lavori sempre per il bene comune, guardando a ciò che unisce più che a ciò che divide”.

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