Ci sono due lettere che segnano la storia di Federico Aldrovandi. Una, la prima, la più famosa, è quella che la madre Patrizia Moretti scrisse il 2 gennaio del 2006. Aprì un blog, lei che nemmeno aveva confidenza con internet, per far conoscere al mondo la storia di suo figlio. Morto esattamente otto anni fa.

“Scrivo la storia di quel che è successo a Federico, mio figlio” è l’incipit che fece conoscere al mondo il caso Aldrovandi. Un “caso” perché ha fatto scuola. Da allora, anzi da dopo la condanna di primo grado dei poliziotti, molte questure hanno attivato corsi di aggiornamento su come approcciare situazioni simili a quella che ufficialmente avvenne  il 25 settembre del 2005 in via Ippodromo a Ferrara. Di Federico parlarono e parlano giornali, libri, film, canzoni e tesi di laurea. Un “caso” da studiare.

Un caso scoppiato da quella lettera che la madre scrive, a tre mesi di distanza dalla morte del diciottenne, per chiedere di far luce sulla sua disgrazia. Patrizia raccontò di quel mattino alle 6. “A quell’ora mi sono svegliata, forse non del tutto, chiedendomi se Federico fosse rientrato. Poi ho sentito un rumore nella sua stanza ed ero sicura che fosse lì…”. E invece lui era disteso sull’asfalto, tumefatto, a pancia in su. Il torace ancora scoperto dopo le inutili manovre di rianimazione dei medici chiamati quando ormai era troppo tardi.

Poi si è “risvegliata che erano quasi le otto. Ho cominciato a chiamarlo e ad inviare messaggi. Nulla… [.] Niente per altre tre ore!!!! Il suo corpo è rimasto sulla strada dalle 6 alle 11. E non mi hanno chiamata. Era mio figlio. Nessuno ha il diritto di tenere una mamma lontana da suo figlio! E mi hanno detto che lo hanno fatto per me… perché era meglio che non vedessi. In quel momento gli ho creduto”.

Alle 11 a casa degli Aldrovandi si reca un loro amico di famiglia. È Nicola Solito, ispettore della Polizia di Ferrara. È lui che nel gran daffare di via Ippodromo dove si era portata mezza questura ha riconosciuto Federico. È sua la seconda lettera che segna la storia di Federico Aldrovandi. Non tutti la conoscono. Venne consegnata a Stefano, il fratello minore di Federico, la mattina del 6 luglio del 2009. Quel giorno era attesa la sentenza di primo grado.

Il verdetto dirà tre anni e mezzo per omicidio colposo. Solito il suo verdetto lo aveva già emesso il 25 settembre di otto anni fa: “Da quel maledetto 25 settembre non c’è notte e giorno che non ti penso, ho sempre davanti agli occhi quella tremenda immagine del tuo corpo senza vita… e mentre andavo verso casa tua, cercavo di trovare le parole per come dirlo a tuo padre Lino, a tua mamma Patrizia, a tuo fratello Stefano. Non c’è stato bisogno di parole…. dopo tanti anni di conoscenza e di amicizia è bastato uno sguardo. Ho davanti agli occhi lo strazio di tuo padre che, inginocchiatosi davanti mi stringeva forte le gambe urlando: “Dimmi che non è vero Nicola…. dimmi che è uno dei tuoi scherzi…”. Sarebbe stato uno scherzo troppo crudele”.

Il prosieguo della lettera è la condanna più severa mai emessa nei confronti di quelle quattro persone in divisa. “Il tuo, era e doveva essere il più semplice degli interventi che una forza di polizia può affrontare e risolvere”. Chiamare il medico, immobilizzare il soggetto e praticargli un’iniezione con del calmante. “C’era solo questo da fare e nient’altro, perche quello che è invece accaduto quella mattina e da quella mattina in poi è un incubo”. Solito è diventato per i suoi colleghi il traditore. Quello che sta dalla parte sbagliata. “In tutto questo tempo ho dovuto fare i conti con me stesso e con tutto quello che mi circonda, da una parte l’uomo e dall’altra il poliziotto, perché io ero “l’amico” e per questo ho subito gratuitamente delle minacce, battute e commenti fuori luogo. Sono arrivato al punto di non avere più fiducia in nessuno, a non sapere più di chi fidarmi”.

Tanto da portarlo “ad allontanare inconsciamente e volutamente le persone a cui voglio bene, le persone che amo, per paura che, quanto mi è accaduto e mi sta accadendo, che le mie scelte, possano di riflesso e in qualche modo arrecargli del danno, del male, che possano subire delle rivalse, delle ripicche. Gente che è arrivata a fare quello che ha fatto è capace di tutto”.

L’ultimo pensiero è per i genitori di Federico, “affamati di verità e giustizia e spero tanto che trovino delle risposte ai loro perché, che trovino un po’ di pace, di tranquillità, perché perdere un figlio è inumano, è contro-natura e come poliziotto ti chiedo perdono per tutto quello che ti hanno fatto”.

Una frase rimane impressa nella mente. Gente che è arrivata a fare quello che ha fatto è capace di tutto. L’ha scritta un loro collega. Uno che ha lavorato con loro per anni. Ora i quattro agenti hanno scontato la loro pena detentiva di sei mesi. Decorsi altri sei mesi di sospensione dal servizio, come decretato dalla disciplinare, torneranno in servizio da pregiudicati.

Uno di loro tornerà anche nelle aule dei tribunali. Per aver offeso su Facebook la madre del ragazzo che, colposamente, ha ucciso. Aggiungo a questo punto una terza lettera. Quella scritto da Lino, il padre di Federico. L’ha letta sabato scorso in occasione del concerto per ricordare la sua morte. “Se qualcuno della polizia riterrà anche di dover continuare a stipendiare dei pregiudicati come se quella mattina nulla fosse successo, lo farà a rischio di sporcare un’immagine che ai miei occhi ormai stanchi, vorrei rimanesse pulita del sangue di un innocente. […] Sono molto stanco Federico, per tanti motivi…, come penso lo siano tanti altri cittadini…, impegnati anima e corpo nel rincorrere un poco di pace e serenità attraverso piccole giustizie e giuste richieste…, che dovrebbero essere dovute….”.

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