In un paese che che è schiavo degli aforismi di Jovanotti e dei mal di pancia di Vasco Rossi c’è chi, come le miriadi di autori, musicisti, editori di opere “proprie” sceglie coscientemente di non farsi tutelare dalla Siae, salvo dover comunque pagar pegno: un po’ perché s’è sempre fatto così, un po’ perché una fantomatica norma sembra gioco-forza dire questo, un po’ perché sull’argomento aleggia un denso misticismo che però non ha mai risposto alla domanda fondamentale, quella che molti (se non tutti) si pongono: perché? Fare domande non ha mai fatto male a nessuno, nascondere le risposte – spesso – sì (cit.)

Porto alla vostra attenzione quindi la storia di un amico, un mio amico, che oltre ad essere un musicista, nonché un organizzatore di eventi, è sopratutto persona testarda: ed è il motivo per cui molti di voi ringrazieranno lui, ancor prima di me, finito di leggere quest’articolo.

Sfiancato dalle richieste fluttuanti, esose ed incomprensibili che l’ufficio locale della Siae gli intimava di adempiere pena far saltare (come è stato poi costretto) l’intero programma del live club di cui aveva la direzione artistica, il “nostro” Andrea Caovini decide di scrivere, per trasparenza, chiedendo lumi sul perché un autore non-iscritto (alla Siae) debba comunque “pagare” e “chiedere permesso” per esibirsi col suo repertorio: composto di canzoni altrettanto “scoperte”, non tutelate. E’ così che dalla sede centrale della Siae gli viene risposto che, data la sua posizione, non deve provvedere ad alcun adempimento: proprio in merito al fatto che ha scelto di tutelare da sé le sue canzoni. Forte di questa nuova certezza continua a suonare (e far suonare) in giro, combattendo la resistenza di tutti gli altri in cui incappava, poiché come dicevamo in apertura “si è soliti fare così”: nonostante le serate da lui proposte prevedessero tutte artisti non-iscritti, avendo sapientemente (e forzatamente) depennato tutti gli altri dal programma e, mai troppo accorto, si era pure preoccupato di segnalare comunque la realtà delle cose, ottenendo un permesso-accordo da “concertino” evidentemente più economico e vantaggioso (parliamo di uno spazio piccolo) rispetto ai 160 euro a serata che gli erano stati in un primo momento richiesti.

Ma la Siae non ci sta (o forse non gli basta) e decide di alzare un polverone, forse addirittura un’indagine per denunciare l’oltraggio (secondo loro): non bastasse, l’accordo economico raggiunto prima è ovviamente da considerarsi decaduto e con esso il presunto trattamento di favore ricevuto sulla base di famigerate e vantate “discrezionalità”. Tra urla e schiamazzi il nostro Andrea Caovini viene gentilmente accompagnato alla porta, con l’invito (altrettanto pacato) di andarsi a studiare la legge 633 del 1941: non gliel’avessero mai detto, non avrebbe scoperto di lì a poco che il potere di concessione, riscossione e revoca che la Siae esercita in simili situazioni non ha alcun fondamento legislativo e, aprite bene le orecchie (o spalancate gli occhi), non esiste alcuna norma che obblighi alla compilazione del programma musicale (borderò) quando i brani non sono tutelati, ossia la norma vantata a tal fine dagli uffici Siae fa riferimento ad un articolo del regolamento di attuazione della legge 633 facente capo al “diritto demaniale“, abrogato nel 1996. Avete letto bene.

Così, incredulo come lo siamo noi ora, prosegue la sua ricerca della verità: tra indisposizioni mestruali, prepotenze e angherie varie. Tutte al telefono ovviamente e dopo attese estenuanti: poiché alle mail, un po’ come all’università, dalla Siae rispondono poco.

Arriva così all’articolo 180, che è forse il più rappresentativo ai fini del nostro discorso: “La suddetta esclusività di poteri non pregiudica la facoltà spettante all’autore, ai suoi successori o agli aventi causa, di esercitare direttamente i diritti loro riconosciuti da questa legge”. Quello che la Siae pretende quindi sarebbe allora forse configurabile come semplice delega, esercizio che spetterebbe però anzitutto all’autore delle opere in questione: ma in tutto questo, il dato più interessante è il fatto che nessun operatore abbia saputo fornire una spiegazione minimamente esaustiva al di fuori del “si fa così e basta“, salvo alcuni prevedibilissimi copia/incolla che spesso, se non sempre, erano tesi più a mascherare la verità piuttosto che offrire un chiarimento alla comunità, alla clientela, di cui Andrea è solo un rappresentante come tanti di noi.

Ora, facendo pur finta che lo Stato (stranamente) non sia intervenuto sulla questione dicendo legislativamente la sua, facendo pur finta che le cose stiano come continua a sostenere (senza alcuna prova evidente) la Siae, viene comunque da chiedersi cosa sarebbe stato (artisticamente) il nostro paese se non c’avessero costretto negli ultimi 72 anni a discutere d’aria fritta: di questa aria fritta. Quanti musicisti tra di voi hanno barattato la propria dignità per un panino ed una birra in nome, evidentemente, dell’ignoranza (quantomai comprensibile) di questo o quel gestore che per adempiere al proprio (presunto) dovere ha pagato la Siae per non pagare voi? E quanti, invece, hanno usato a loro favore questo stato di cose pur di intascare fuori busta ed avere la scusa pronta una volta che la band scendeva dal palco staccando gli strumenti?

Attendiamo chiarimenti, fiduciosi che arriveranno su carta carbone.

P.s. = della questione si sono già occupati i più noti giuristi del diritto d’autore su vari siti specializzati (Rockol, Patamu, Rockit) dando all’indagine una valenza ben più ampia – per fortuna – di quella che può avere in questo singolo articolo. Rimando per corretteza al blog di Andrea Caovini dove è possibile, per chi lo volesse, seguire la vicenda dall’inizio.

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