Fine agosto: fra poco ricomincia l’anno scolastico, si torna a scuola. Tra i libri che ho letto quest’estate ce n’è uno, Lo studente strategico. Come risolvere rapidamente i problemi di studio di Alessandro Bartoletti, che può essere utile a genitori e insegnanti che nella scuola si trovano oggi a rispondere ad aspettative nuove e molteplici, a doversi trasformare in counselor, assistenti sociali, mediatori in senso lato: “Vivere per studiare, non studiare per vivere”, ci ricorda la citazione di Francesco Bacone in apertura. Evoca quel desiderio di comprendere e di sapere che evidentemente non motiva chi ha “problemi di studio”.

Rifacendosi all’insegnamento di Paul Watzlawick, alla “pragmatica” di come la comunicazione influenzi il comportamento, l’autore illustra come la scuola sistemica aiuti a superare ansie e blocchi di fronte allo studio. Il titolo è fuorviante: il termine “strategico” non si riferisce allo studente ma alla terapia sistemica strategica che dà una mano a ragazzi svogliati e a studenti fuoricorso, parcheggiati per anni negli atenei, con risultati scolastici pessimi o nulli.

Il libro spiega come la psicoterapia breve stategica affronti questi problemi: tuttavia, cercando questa (anche) di sorprendere chi li ha, in modo che possa vedere la situazione da altri punti di vista e aprirsi ad altre scelte concrete, lo sconsiglio vivamente a studenti con problemi di motivazione. Se lo leggono non rischiano infatti, se poi si dovessero decidere per una terapia sistemica, di disinnescarne gli effetti? E sarebbe opportuno che lo sconsigliassi, in fondo, anche a terapeuti, insegnanti e genitori. Consigliandolo infatti non farei che abbassare la motivazione a darci un’occhiata, dato che gli esseri umani, pare, preferiscono fare da sé le proprie scoperte. Sentiamo una sana diffidenza per quel che ci viene consigliato, e tendenzialmente un rifiuto verso ciò che è obbligatorio.

Tutta la questione della demotivazione si può riassumere in questo semplice fatto: gli esseri umani han bisogno di potersi sentir liberi per sentirsi motivati, per aver voglia di far qualcosa, per cui il “dovere del sapere” è controproducente: “percepire un senso di costrizione” (il “devo studiare, devo laurearmi” che ci si ripete dentro di sé, o che ci sentiamo dire dagli altri) abbatte la motivazione.

Inoltre, se lo studio diventa un luogo di frustrazione, la motivazione primaria sarà semmai “uscirne”; si nota, in molti studenti, “un’inversione tra mezzi e fini”: “l’obiettivo diventa l’esame in sé” (che invece non è che il mezzo per controllare quanto si è capito e imparato) e il mezzo (per passare l’esame) diventa l’acquisizione di nuove conoscenze (da dimenticare velocemente subito dopo l’esame…). Studiare diventa insomma il mezzo per passare l’esame.

Una situazione paradossale, se non si studia per “superare le prove” ma perché sapere è piacevole. “Sapere” ha a che fare col termine ‘sapio’, ovvero “assaporo, assaggio”: l’esperienza di sapere il gusto delle cose, è una gioia esperienziale, insomma. Ma come ogni gioia esperienziale, solo chi la sente in prima persona sa di che cosa si stia parlando. E se l’esperienza invece è quella della paura dell’esame, non sentirà forse alcuna gioia. 

Il classico e banale “devi fare i compiti!” può stravolgere insomma l’esperienza, che da piacevole diventa una prigione, e risolversi in un crollo di energia o in un rifiuto totale. 

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