Si può essere scettici perché questi tempi giustificano il timore che ci si imbatta di nuovo in una promessa farlocca, nel classico dico e non faccio. Si può dunque dubitare, e anche legittimamente, delle promesse di Ignazio Marino di cambiare il volto dell’amministrazione capitolina, una macchina gigante di produzione del consenso e dello spreco, parentopoli perenne in cui legami familiari e correntizi sporcano ogni iniziativa.

Non si può però fare confusione tra lui e Gianni Alemanno. Si prenda la biografia di ciascuno, il senso dell’etica e persino il livello degli infortuni occorsi per avere sotto gli occhi la distanza siderale che separa il primo dal secondo. La giunta Alemanno ha mostrato un tale ragguardevole score di insuccessi e di immoralità da restare senza fiato. È anche sua la responsabilità se oggi i romani che andranno al voto saranno meno della metà degli aventi diritto, ed è il terribile esito della malapolitica se domani Roma consegnerà al Campidoglio un sindaco indicato da un terzo degli elettori. Il confronto tra idee e anche tra passioni è oramai destino che riguarda una minoranza, appendice numerica del grande magma sociale oramai travolto dalla disillusione, confinato alla protesta, relegato all’impotenza.

Roma è una metropoli grande e faticosa. Una città magnifica, unica al mondo, che si apre a imponenti questioni di convivenza, civiltà, sicurezza. È una città che è stata posseduta (spesso con la connivenza del centrosinistra) da poteri estranei alla democrazia. Si è potuta costituire una oligarchia del cemento che ha dominato ogni scelta urbanistica, traendone il massimo profitto economico da una deturpazione sistemica del territorio. Il fatto che Marino, tra le altre cose, oggi si impegni in una campagna di moralizzazione, iniziando a far rispettare il coefficiente zero di edificazione dell’agro romano è da salutare come il gesto più rivoluzionario possibile. Resiste, e qui siamo di nuovo al punto, la domanda: darà corso all’impegno preso?

Finora ha fatto quel che ha promesso. Ha negato il suo voto al governo delle larghe intese, rispettando il mandato degli elettori, e si è dimesso da senatore prima di conoscere il risultato delle elezioni romane. Poco? Di questi tempi è oro che luccica. 

il Fatto Quotidiano, 9 Giugno 2013

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