Ricavi in crescita (del 6,8%) ma utili pesantemente in calo (-79%), a causa soprattutto della pesante recessione in Spagna e delle “misure eccessive e discriminatorie” del governo spagnolo: una tassa del 7% sulla produzione di energia (da ogni fonte) che ha penalizzato la controllata Endesa, svalutata in bilancio per 2,5 miliardi di euro. Per Enel quella del 13 marzo è stata una giornata da dimenticare. Lo stesso amministratore delegato Fulvio Conti ha ammesso che la società dovrà fare sacrifici, a partire dal suo stipendio milionario e di quello dei top manager, con riduzioni fino al 30%. Pesa un “contesto macroeconomico sfavorevole”, soprattutto nei paesi maturi, come Italia e Spagna, dove Enel ricava buona parte del suo fatturato.

Ma può bastare un richiamo alla crisi e alla mano pesante del governo Rajoy per spiegare i risultati deludenti del colosso italiano dell’energia elettrica? A giudicare da un’analisi pubblicata venerdì scorso dall’agenzia Reuters sembrerebbe proprio di no. I problemi, in realtà, sarebbero strutturali e non riguarderebbero solo Enel, ma tutti i giganti del settore utilities che, con lo sviluppo delle nuove rinnovabili e di sistemi di produzione decentrata di elettricità, hanno sempre più i piedi d’argilla. “Ogni nuovo pannello solare installato sui tetti europei intacca il modello di produzione centralizzato delle grandi utilities”, spiega la ricerca di Reuters. “Se non riusciranno a reinventare il loro modello di business, questi giganti rischiano di diventare i dinosauri del mercato energetico”.

Le energie rinnovabili stanno trasformando sempre di più i consumatori in produttori e il mercato dell’energia sta mutando profondamente, in modo graduale e sempre più spesso senza l’appoggio dei governi nazionali, schiacciati dai debiti e preoccupati di fare cassa. Ma almeno per ora, i grandi produttori tradizionali osservano in disparte. “In Germania, dove nel 2012 il 22% dell’energia è stata prodotta da fonti rinnovabili, le quattro grandi utilities presenti nel Paese come E.ON, RWE, EnBW e Vattenfall Europe, sono quasi assenti nei nuovi settori”, continua Reuters. Il 40% della potenza installata nelle rinnovabili (in particolare eolico e solare) in Germania alla fine del 2011 era in mano a singoli individui e famiglie, il 14% a imprese di nicchia nel settore energetico, l’11% era controllato da aziende agricole. Solo il 7% era in capo alle utilities internazionali. “Nel solare i quattro grandi dell’energia in Germania sono ancora più marginali, visto che hanno ceduto il 97% della produzione a investitori che sono esterni al settore della produzione energetica tradizionale”, spiega Mario Richter, dell’Università di Lüneburg. “Stanno perdendo una grande opportunità”. E ora, con i corsi delle azioni ai minimi da decenni e i bilanci appesantiti dai debiti “non possono permettersi di commettere altri errori”.

Il discorso vale anche per Enel, controllata al 31,24% dal ministero dell’Economia e delle finanze. Il colosso italiano investe nelle rinnovabili, soprattutto attraverso la controllata Enel Green Power, ma lo fa ancora in misura limitata rispetto al totale dell’energia elettrica prodotta e la voce “solare” non compare in pratica in bilancio. Il bilancio consolidato di Enel a fine 2011 (l’ultimo disponibile) parla di 293,9 TWh (terawatt/ora) di energia elettrica netta prodotta complessiva, di cui 171,6 TWh (58%) da fonte termoelettrica (carbone, ciclo combinato, olio combustibile e gas), 39,5 TWh (13%) dal nucleare e 82,8 TWh da fonti rinnovabili (28,2%), tra le quali però l’idroelettrico, fonte rinnovabile “matura” conta per l’85%, mentre le nuove rinnovabili, che meglio si prestano a modelli di produzione decentrati, sono marginali: 6,3 TWh l’eolico (o 2,14% dell’energia elettrica complessivamente prodotta da Enel), mentre la voce “altro”, che dovrebbe comprendere il solare, pesa solo per 0,1 TWh (o 0,03% del totale).

Non è un caso che, giusto un anno fa (il 30 marzo del 2012), proprio il presidente di Enel Andrea Colombo si sia lamentato degli incentivi alle rinnovabili. “Lo sviluppo delle rinnovabili, unito alla stagnazione della domanda”, aveva dichiarato, “sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendone a rischio la possibilità di rimanere in esercizio”. Negli stessi giorni era uscito il dossier sui Comuni Rinnovabili di Legambiente, che parlava molto chiaro: “In Italia dal 2000 ad oggi 32 TWh da fonti rinnovabili si sono aggiunti al contributo dei vecchi impianti idroelettrici e geotermici: è qualcosa di mai visto, che ribalta completamente il modello energetico costruito negli ultimi secoli intorno alle fonti fossili, ai grandi impianti, agli oligopoli”.

Che Enel lo voglia o meno la transizione verso un sistema di energia a produzione decentrata e diffusa, l’internet dell’energia, come l’ha definito l’economista americano Jeremy Rifkin, sembra ormai inevitabile. Ma è un processo che non può compiersi solo con la buona volontà dei singoli cittadini. Sempre secondo Rifkin, “bisogna porre le fondamenta di una nuova infrastruttura energetica mentre si tiene in vita il vecchio regime”, servono “misure di efficienza energetica messe in atto dalle imprese e dalle famiglie” e serve, nel lungo periodo, un “nuovo paradigma economico, un cambio sistemico” del modo nel quale la vita economica dei differenti Paesi è organizzata. Una sfida che deve coinvolgere i governi, molto di più di quanto sia accaduto fino ad adesso. Come riporta la rivista specializzata QualEnergia, in Italia nel 2012 gli investimenti nelle rinnovabili si sono dimezzati rispetto al 2011 (-51%), a causa della crisi, ma anche dell’incertezza normativa intorno al quinto conto energia. Al nuovo governo il compito di provare a invertire la rotta.

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