Livio Pepino, storico esponente di Magistratura Democratica, in una lettera spiega le ragioni che hanno portato il movimento ‘Cambiare si può’ a prendere le distanze da ‘Rivoluzione civile’ di Antonio Ingroia

La campagna elettorale è cominciata e, con essa, le operazioni strumentali tese a confondere e a disinformare riducendo il confronto politico a gossip o a lite di condominio. Ha iniziato giorni fa su La Repubblica Ettore Boffano, con un articolo ancor più confuso e contraddittorio del solito, nel quale ha impegnato tutto il suo livore per accusare di “disonestà intellettuale” (concetto evidentemente a lui familiare) i “professori torinesi promotori di ‘Cambiare si può'”, rei di avere dapprima tramato nell’ombra per propiziare una indebita candidatura di Antonio Ingroia e, poi, abbandonato il campo in polemica con le nobili candidature, a fianco di Ingroia, dei segretari dell’Italia dei Valori e dei partiti dell’ex Sinistra Arcobaleno. Prosegue, ieri, su La Stampa, Giuseppe Salvaggiulo che, mescolando pezzi di verità e plateali invenzioni, descrive il rapporto tra “Cambiare si può” e Antonio Ingroia come un percorso costellato di “scippi”, “fregature”, tradimenti e separazioni, evocando finanche una – mortificante quanto inesistente – anticamera mia e di Marco Revelli nel vano tentativo di farsi ricevere da Ingroia (sic!).

La devastazione del costume non sta solo nella politica! So che non basteranno precisazioni e spiegazioni a frenare chiacchiericci e gossip. Ma ritengo doveroso provarci, soprattutto per sottolineare che il dissenso politico è cosa del tutto diversa dalle reciproche scorrettezze e dalle livorose recriminazioni. È una questione di costume che va ben oltre le vicende contingenti e che ha a che fare con un diverso modo di costruire la politica e i rapporti sociali. Che cosa è dunque successo tra “Cambiare si può” e Antonio Ingroia? È successo semplicemente che la verifica sulla compatibilità dei rispettivi percorsi si è conclusa negativamente, che non ci sarà nessuna lista “Cambiare si può” (i cui promotori hanno deciso di farsi da parte e di proseguire il percorso fuori della vicenda elettorale) e che la maggioranza di coloro che vi avevano aderito ha scelto comunque, in questa situazione, di collaborare con la lista “Rivoluzione civile” promossa da Ingroia e da altri. Il tutto – potrà sembrare strano ma è così – nel rispetto reciproco. Rispetto significa, peraltro, chiarezza e trasparenza, cioè esplicitazione pubblica delle divergenze, proprio per evitare interpretazioni legate a personalismi o peggio. Dunque, le ragioni del dissenso.

Le mie – e quelle dei promotori di “Cambiare si può” spregiatamente definiti “professori” da giornalisti allergici al culturame – sono semplici e lineari. Abbiamo posto al centro del nostro programma due opzioni irrinunciabili. Una netta alternativa al liberismo, al governo Monti e a chi ne è stato il socio di riferimento (le destre da un lato e il Pd dall’altro) sulla base di una diversa idea di Europa, di sviluppo, di politiche per uscire dalla crisi, di centralità del lavoro (e non del capitale finanziario). E una altrettanto netta alternativa al sistema politico che ha caratterizzato gli ultimi decenni (anche a sinistra) portandoci allo sfascio attuale: un sistema soffocato da un rapporto corrotto con il denaro e con il potere economico, dalla trasformazione della rappresentanza in delega incontrollata, dalla incapacità di affrontare i problemi reali della vita delle persone; un sistema da trasformare nel profondo con segni tangibili di radicale discontinuità e con nuovi metodi, nuove pratiche, nuove facce (designate dai territori, all’esito di un dibattito pubblico, senza quote o riserve per ceti politici). Nel confronto con Ingroia – che ha avuto accoglienze calorose nelle nostre assemblee ma che non è mai stato indicato come nostro candidato premier – è emerso che proprio su questi punti c’erano diversità incolmabili.

A nostro avviso la lista alternativa che si delinea sotto la sua leadership va in una direzione diversa da quella necessaria. Debole nel programma (pur con la dichiarata disponibilità a integrazioni a tutt’oggi non intervenute), subalterna alla logica del partito personale (almeno a giudicare dal simbolo), pronta a proiettare in primo piano le candidature dei segretari di partiti e partitini alla ricerca di un seggio (anche di chi si è distinto, in un recente passato, per il sostegno a quelle grandi opere il cui rifiuto è il cuore di un progetto veramente alternativo), essa ripete la logica della Sinistra Arcobaleno del 2008. Non basteranno a modificare il segno dell’operazione le candidature di alcuni (validi) esponenti della cosiddetta società civile, la cui esposizione finirà, al contrario, per indebolire e demotivare proprio quel mondo dei movimenti che è il nostro primo riferimento (come rischia di accadere in queste ore con improvvide proposte di candidature che rischiano di dividere il Movimento No Tav). E non basterà un pugno di eletti – se ci saranno – a dare prospettive di cambiamento al quadro politico. Di qui – da questa analisi – la scelta di percorrere strade diverse. Ce n’è quanto basta senza bisogno di inventare disonestà intellettuale, scippi e tradimenti.

di Livio Pepino

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