Nella pagina dei commenti di Repubblica, che negli ultimi giorni ha visto fronteggiarsi a distanza Zagrebelsky e Scalfari sul conflitto attivato da Napolitano contro la Procura di Palermo, ieri comparivano due articoli speculari che, almeno dal titolo, parevano dare l’uno ragione e l’altro torto al Quirinale. “Le parole incaute del Colle” di Franco Cordero e “I meriti del Presidente” di Giuseppe Maria Berruti, giudice di Cassazione.

Cordero, sul lato sinistro, sbeffeggia col consueto sarcasmo intriso di sapienza giuridica le pretese di “cabalistica inviolabilità” del capo dello Stato e le “tante ugole di accompagnamento”, compresa quella di Monti, “l’economista chiamato a salvare l’Italia” che straparla di “abusi gravi” dei pm: “Nell’Italia postfascista non s’era mai visto tanto plumbeo mimetismo”.

Sulla destra, per fare 1-1, risponde lo squillo Berruti: inchini e salamelecchi al Presidente, che dice sempre “cose difficili” ma sacrosante e intende solo preservare la sua “funzione costituzionale”. Poi però viene al dunque, cioè al dilemma se la Procura dovesse distruggere subito le telefonate di Napolitano intercettate sul telefono di Mancino, senza passare dal gip, né ascoltarle né tantomeno valutarle (come pretende Napolitano); o se invece dovesse ascoltarle, valutarle, decidere sulla loro rilevanza e accantonarle in vista dell’udienza davanti al gip per l’eventuale distruzione, previo ascolto degli avvocati (come dice l’art. 269 del Codice di procedura e come ha fatto la Procura di Palermo).

Berruti parla di “grande opinabilità tecnica sul punto. È difficile applicare direttamente la norma costituzionale dell’art. 90 (irresponsabilità del Presidente per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, salvo che per attentato alla Costituzione e alto tradimento, ndr) a un caso non previsto. Vi sono peraltro argomenti anche per escludere la distruzione immediata. E al momento mi pare difficile che il giudice possa disporla”. Cioè non c’è scritto da nessuna parte che la Procura dovesse (e potesse) subito distruggere o far distruggere dal gip le telefonate. Proprio quel che sostiene la Procura e il contrario di quel che sostiene il Quirinale. Come fa Berruti a dare ragione a Napolitano, visto che gli ha appena dato torto?

Con l’argomento usato dai corazzieri nelle ultime settimane, quando si son resi conto che la mossa di trascinare la Procura dinanzi alla Consulta s’è rivelata impopolare e sospetta, isolando vieppiù i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia: ma che sarà mai, non c’è nessuno “scontro”, “il conflitto di attribuzioni – è Berruti che scrive – è un rimedio fisiologico a una dialettica tra grandi istituzioni”, “un gesto importante ma non drammatico” per dirimere una controversia giuridica.  Ergo “è sbagliato affermare che la Corte può dare torto o ragione ai magistrati di Palermo”.

Eh no, troppo comodo. Nel decreto che si è scritto il 16 luglio per attivare il conflitto con i pm, Napolitano li accusa di “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”: cioè, in parole povere, di aver attentato alla Costituzione. Un’accusa gravissima, che se fosse confermata dalla Corte getterebbe una macchia indelebile sulla loro reputazione e carriera, con conseguenze disciplinari e anche penali. Napolitano non chiede alla Consulta di sciogliere un nodo di “opinabilità tecnica”: ma di dare torto marcio alla Procura di Palermo, affermando che essa, nelle indagini sulla trattativa, ha compiuto una sorta di colpo di Stato contro il supremo rappresentante della Nazione. Il tutto per non avere fatto ciò che lo stesso Berruti ammette che “al momento” i pm non possono fare: incenerire, con un bel falò nel loro ufficio, le bobine con The Voice.

È confortante, per chi l’ha detto fin dal primo giorno, leggere che ormai anche i difensori di Napolitano cominciano a dargli torto. Ora manca soltanto che lo invitino a darsi torto da solo.

Il Fatto Quotidiano, 23 Agosto 2012

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