Angelo Provenzano, figlio del boss Bernardo

“La verità processuale dice che mio padre è stato il capo di Cosa Nostra. Certo, a pensare che oggi, a distanza di 20 anni dalle stragi, sui giornali si sta parlando di revisione, dobbiamo riscrivere qualche verità a questo punto”. Le parole sono cadenzate, intervallate da sospiri, pronunciate per la prima volta davanti a una telecamera da Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, 36 anni il primogenito del capomafia corleonese. Bell’aspetto, ben vestito, buona dialettica, lavora nel settore vinicolo. Sicuro di sé, si definisce “fiero del padre”. E’ il ritratto che se ne ricava dall’intervista video esclusiva rilasciata all’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella, che andrà in onda stasera alle 21. Mesi di tentativi, attraverso la mediazione di uno degli avvocati dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio: un primo contatto un anno fa, un “no che lasciava comunque delle aperture” racconta al Fatto la giornalista palermitana “poi nuovi, pazienti tentativi, fino a un mese fa quando il legale di famiglia, mi dice: ‘Chiami lei signorina direttamente il signor Angelo questa volta’”.

Studi da geometra, incensurato, come anche il fratello più piccolo di tre anni, Francesco Paolo, “unico, e io per lui, compagno di giochi per 16 lunghi anni, gli anni anche della mia ‘latitanza’. Ho vissuto in un reality show, essere figlio di una persona latitante per 43 anni, vuol dire essere messo sotto controllo e ne sono stato consapevole. Solo dopo la fine della mia ‘latitanza’ è cominciata la mia rinascita, il contatto con la gente, prima conoscevo solo pochi volti”.

Gli viene chiesto cosa ne pensa dei collaboratori di giustizia e alle loro ricostruzioni sul periodo stragista. Provenzano accenna un sorriso: “Sì, è un’anomalia tutta italiana questa dei collaboratori di giustizia. Ma stiamo parlando di uomini e si possono dare anche delle indicazioni sbagliate. In ogni cosa in cui c’è l’uomo c’è la possibilità dello sbaglio“. “Sulle stragi, sopra l’impronta della mafia, si accavalla l’ombra dello Stato“, interviene la giornalista. “In questi anni – risponde – mi sono cimentato nello studio delle cose, mi sono imbattuto nella strage di Portella della Ginestra, dopo 50 anni scopriamo, forse, che non è stata opera di un bandito, Salvatore Giuliano, ma di un pezzo dell’esercito italiano. Mi sembra che sia un copione che venga recitato la seconda volta e non è su queste cose che si può fondare una fiducia incondizionata, quando qualcosa parte dall’interno dello Stato – continua – si rischia di perdere la fiducia”.

“Chi sono per lei Falcone e Borsellino?” chiede Lauricella. “Per me sono due vittime immolate sull’altare della patria. Sono due vittime della violenza”. Fa attenzione a non usare mai il termine “mafia” Angelo Provenzano; anche quando gli viene chiesto “la mafia le fa schifo?”, lui risponde: “Tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. Sul punto in cui Riina sostiene che sia stato Bernardo Provenzano a venderlo allo Stato, Angelo è netto: “Se riesce a ottenere il permesso dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), vada a rivolgere la domanda direttamente a mio padre”. Sulla possibilità che un giorno il padrino possa collaborare con la giustizia, replica: “Nello stato attuale trovo che sia difficile immaginarlo che collabori con lo Stato, sarebbe una dimensione totalmente nuova”. “Ma cosa chiede oggi lei in concreto, nei fatti?”. “Quello che io chiedo è che si faccia una perizia per capire se mio padre è capace di intendere e volere, se a livello neurologico possa essere curato. Vorrei dignità. Ma deve stabilirlo lo Stato. Noi siamo consapevoli che sarà difficile che venga scarcerato, chiediamo però che venga curato. Mio padre – prosegue – vive un decadimento neurologico tale da non poter ricevere cure chemioterapiche per il suo tumore alla prostata. Perché ci deve essere questa discriminante? Perché si chiama Provenzano? Perché è un membro di Cosa Nostra?”. “L’incapacità di intendere e volere potrebbe mettere a rischio il proseguimento di processi fondamentali?”, conclude la giornalista. “Che qualcuno si prenda allora la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam”.

da Il Fatto Quotidiano del 15 marzo 2012

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