Tra lo spread altalenante, i debiti sovrani che appesantiscono i bilanci degli stati e i severi giudizi delle agenzie di rating, l’oro nero era quasi passato in secondo piano. Tutti credevano che la crisi fosse di carattere finanziario, eppure è ancora lui uno dei protagonisti principali di questi tempi difficili. Lo sostiene la prestigiosa rivista scientifica Nature, che ha pubblicato un’approfondita analisi sull’incidenza del prezzo del petrolio nella crisi globale. Secondo il report del settimanale britannico, “delle undici recessioni verificatesi negli Usa dopo la Seconda guerra mondiale, dieci, tra cui l’ultima, sono state precedute da un balzo improvviso dei prezzi del greggio”. E’ la stessa Agenzia internazionale per l’energia a certificare che, quando il prezzo del petrolio supera i 100 dollari al barile (in questo periodo è attorno ai 110) è l’intera economia mondiale a entrare in sofferenza.

“A partire dal 2005 la produzione convenzionale di greggio non è cresciuta di pari passo con la crescita della domanda, malgrado un aumento del prezzo del Brent sulla piazza di Londra di circa il 15 per cento all’anno – sottolinea il periodico inglese – Anzi, la capacità produttiva dei campi petroliferi sta declinando in tutto il mondo a un tasso annuo compreso tra il 4,5 e il 6,7 per cento e sembra aver raggiunto un tetto negli ultimi sette anni”. Meno petrolio estratto, domanda di energia in crescita e prezzi che s’impennano. Un circolo vizioso difficile da spezzare. “Se continuerà questa curva decrescente – stima Nature – avremo bisogno di nuovi giacimenti che diano più di 64 milioni di barili al giorno, una cifra quasi corrispondente all’intera produzione odierna. Ed è molto improbabile che ciò accada. Non vuol dire che stiamo restando senza oro nero, ma – denuncia Nature – stiamo finendo il petrolio che può essere prodotto con facilità e a basso prezzo”. Le risorse degli altri combustibili fossili non sembrano in grado di colmare il buco. La produzione di carbone degli Stati Uniti, per esempio, ha toccato il suo massimo nel 2002 e il picco mondiale, secondo le proiezioni di Nature, dovrebbe raggiungersi nel 2025.

Intanto, sia gli Usa che l’Europa spendono un miliardo di dollari al giorno per importare petrolio. Con la conseguenza che “gli alti prezzi dell’energia pesano sui bilanci delle famiglie e remano contro la ripresa economica”, afferma lo studio inglese. Che fa l’esempio del nostro Paese. L’analisi è impietosa: “Nel 1999, al momento dell’entrata in vigore dell’euro, l’attivo commerciale annuo dell’Italia era pari a 22 miliardi di dollari. Da allora, la sua bilancia commerciale è cambiata in modo rilevante e oggi il Paese ha un passivo di 36 miliardi di dollari”. La differenza è in gran parte dovuta proprio all’aumento dei costi dell’oro nero. In base alle stime di Nature, “l’Italia, malgrado un calo delle importazioni pari a 388mila barili al giorno rispetto al 1999, spende oggi 55 miliardi di dollari ogni anno per importare petrolio, contro i 12 di tredici anni fa”. Dati che spingono la rivista britannica a dichiarare che “il prezzo del greggio ha probabilmente dato un forte contributo alla crisi dell’euro nell’Europa meridionale, i cui Paesi dipendono in gran parte dal petrolio estero”.

Una conferma della nostra vulnerabilità arriva dal primo rapporto sull’efficienza energetica in Italia, presentato dall’Enea a dicembre. Si legge che “più del 70 per cento dell’energia è prodotta utilizzando fonti non rinnovabili (petrolio e gas naturale) importate dall’estero”. Anche la domanda di energia primaria, secondo il rapporto dell’Enea, è cresciuta nell’ultimo anno: “Nel 2010 si è attestata sui 185,3 milioni di tonnellate di petrolio equivalente (Mtep), il 2,7 per cento in più rispetto all’anno precedente, mentre i consumi finali sono stati pari a 137,5 Mtep, con un incremento del 3,6 per cento rispetto al 2009”.

Intanto, il Fondo Monetario Internazionale continua a stimare una crescita economica pari al 4 per cento del prodotto interno lordo per i prossimi cinque anni. Diverse le previsioni di Nature, in base alle quali “per realizzare una crescita simile ci vorrebbe un eroico incremento della produzione di petrolio del 3 per cento annuo. La soluzione necessaria, quindi, è un’altra: affrancare la società dai combustibili fossili”.

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