Eccolo, uno dei problemi dei nazisti: finita la guerra, si sarebbero tolti la divisa. E nessuno li avrebbe riconosciuti più. Si sarebbero mescolati agli altri, ai partigiani, ai “liberatori”. E non avrebbero pagato per le loro colpe. Per questo Aldo Raine, “The Apache“, marchiava i nazi con una svastica incisa sulla fronte col machete: perché nessuno dimenticasse.

Ovviamente è solo un film, peraltro splendido, Inglorious Bastards. Di quel gran genio feticista di Quentin Tarantino. E ovviamente siamo tutti contrari alla violenza, bla bla bla (lo scrivo per chi ama la sottolineatura dell’ovvio).

Ma che fastidio, adesso. Che fastidio. Che imbarazzo. Così come non esistevano più fascisti un attimo dopo Piazzale Loreto, e quelli che più martoriavano i cadaveri del Duce e di Claretta Petacci erano gli stessi che ne applaudivano la Mascella al Vento; e così come le monetine a Craxi le lanciavano anzitutto gli ex elettori che avevano cavalcato l’immoralità promulgata dal peggiore partito socialista d’Europa: così adesso, per la caduta (tardivissima e non so se definitiva) di Silvio Berlusconi, tutti festeggiano. Tutti si rifanno una verginità. Tutti si dicono salvi e redenti. “Chi? Berlusconiano, io? Ma quando mai”.

Ci vorrebbe davvero un Aldo Raine. Con una incisione più neutra, meno invasiva: un microchip, un led negli zebedei, un tatuaggio della statuetta di Priapo sui glutei. Un Uniposca partigiano, fate voi. Però qualcosa che rimanga: che ricordi come milioni di italiani, ora per ignoranza e ora per convenienza, hanno ridotto l’Italia così.

Io non li voglio, i mischiamenti. Mica l’ho ascoltato a caso, Gaber. Mica l’ho letto per nulla, Fenoglio. Mica lo sentivo per posa, l’ultimo Monicelli. Io non voglio festeggiare coi servi per nulla sciocchi (e piuttosto scaltri). Non voglio festeggiare con quelli che al bar dicevano che “Berlusconi fa bene ad andare a donne, almeno lui va con le fighe e mica coi trans“. Non voglio mischiamenti con chi se n’è fregato della questione morale, con chi non ha voluto informarsi, con chi non ha pianto per Stefano Cucchi e Vittorio Arrigoni. Non voglio mischiamenti con chi ha anche solo tollerato – è già troppo – gli Stracquadanio e le Santanché.

Io n c’entro niente, con quella gente. Io non ho nulla da festeggiare: con loro. Io non posso perdonarli: loro.

E non voglio mischiamenti nemmeno con la miseria di Pier Luigi Bersani, che dopo aver fiancheggiato per anni il berlusconismo, adesso si appropria dei meriti della sua caduta (come accadde per i referendum: Bersani è uno che esulta per interposta persona. Non vorrei che, qualora sentisse un orgasmo femminile nella stanza di fianco, si vantasse delle proprie doti amatorie: così, l’erezione per osmosi).

E non voglio mischiamenti neppure col Terzo Polo, che si è accorto con ritardo imbarazzante (e interessato) di chi fosse davvero Berlusconi e ora è già pronto per recitare la parte ambita del nuovo che indietreggia.

Mi si dirà: eh, ma ora dobbiamo festeggiare. D’accordo: festeggiamo. Certo. Ma non con tutti. Festeggio con chi, ieri e oggi, ha salutato un giorno arrivato troppo tardi: un giorno per cui ha combattuto, sofferto. Festeggio con loro, che conosco e riconosco.

Ma questa redenzione trasversale, questo qualunquismo furbastro, questa esultanza becera e autoassolutoria: mi disturbano. Mi atterriscono.

Non testimoniano una gioia: dimostrano il camaleontismo dell’italiano medio. Attestano l’immortalità di quelli che benpensano, come cantava Frankie Hi-Nrg. E – temo – ribadiscono che non cambierà nulla. Neanche stavolta.

Non le vedete, perché sono incise con l’inchiostro simpatico, ma sono infinite le cicatrici che ha inciso Aldo Raine sulla fronte di molti italiani ora brulicanti in piazza. Sono infinite. Evidenziate dalla Storia, irrilevanti o quasi per il presente.

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