La tenda nel suo giardino Carla non l’ha mai voluta smontare. E’ rimasta tra le piante curate e il gazebo per un intero anno. Di fronte al suo cancello di casa, appena attraversata la strada, l’immenso ventre della discarica di Borgo Montello rilascia l’odore nauseabondo, acre, insopportabile anche la domenica, quando i cancelli sono chiusi. Così avviene da trent’anni nella terra della bonifica e dei contadini veneti, della camorra che punta a Roma e dei silenzi sui traffici più immondi. Qualche giorno fa Carmine Schiavone – collaboratore di giustizia del processo Spartacus contro il cartello dei casalesi – ha voluto ricordare perché dalla provincia di Caserta si puntava su questo lembo di terra a settanta chilometri da Roma, alle porte di Latina: lì buttavamo anche rifiuti radioattivi, ha raccontato al quotidiano Il Tempo. “Era una nostra zona”, aveva già dichiarato fin dal 1993.

Per Carla quelle sette buche, cresciute da quando lei era appena una ragazza, sono sempre state il suo incubo quotidiano: “Qui buttano la monnezza dell’intera provincia, ed è un inferno. Sapere poi che in fondo ci sono anche i rifiuti tossici è insopportabile”.

Dopo la morte del padre, colpito da un tumore, ha deciso di vivere come forma estrema di protesta in una tenda nel suo giardino. Ha steso gli striscioni sui cancelli, a una decina di metri dall’ingresso dell’invaso, dove arrivano i camion da Latina. Non è accaduto nulla. Dopo anni di proteste ha ottenuto solo una proposta che definisce umiliante, contenuta in due fogli firmati da Bruno Landi. Ovvero l’ex politico del Psi che da presidente della Regione Lazio ha sempre autorizzato le “emergenze” di Borgo Montello, negli anni ’90, e che oggi amministra la Ecoambiente, uno dei due gestori dell’invaso. Landi gli ha offerto 1400 euro al mese, fino al riempimento delle buche. Un indennizzo? No, “un puro atto di cortesia”, si legge sul contratto che la Ecoambiente le ha mandato.

Tutto era iniziato un po’ alla buona, negli anni ’70, quando un imprenditore locale, Proietto, aveva aperto la sua tenuta ai rifiuti. Poi, secondo il racconto di Carmine Schiavone, qui era nata la prima Gomorra dei rifiuti industriali: per ogni bidone il clan riceveva cinquecento mila lire, ha raccontato nel 1996 ai carabinieri. Fusti interrati almeno fino alla fine degli anni ’80. E poi scarti dell’industria farmaceutica, come racconta Sergio un cacciatore che scalava le montagne di fiale abbandonate per raggiungere le prede: “Interi Tir, una quantità enorme”. La discarica – che nel frattempo era divenuta l’unica nella zona sud di Roma, grazie ad una serie di ordinanze regionali – era cresciuta a dismisura. E abusivamente, visto che l’intera zona era inserita nel Prg di Latina come area agricola.

Tutti qui ricordano i camion che arrivavano la notte da Ferrara, da Lucca, dal nord industriale alla ricerca di sversatoi dove abbandonare le scorie. I Casalesi non avevano ancora firmato il patto del 1989, l’accordo che apriva le porte all’agro di Caserta. Ma erano già qui, con diverse terre comprate proprio di fianco alla discarica e oggi acquistate dall’Indeco del gruppo Grossi, il re delle bonifiche arrestato per Santa Giulia a Milano che a Borgo Montello gestisce la metà dell’invaso. La notte, raccontano i contadini, sentivi il rumore dei bidoni rotolare nelle scarpate, di fianco al fiume Astura. Viaggi silenziosi, viaggi ricchi, camion gestiti dalla prima gerenza dei clan, quando ai vertici del cartello c’erano ancora i Bardellino, come ricorda Schiavone.

La provincia di Latina, guidata da Armando Cusani, del Pdl, non ha mai voluto realmente approfondire fino in fondo il traffico di veleni nel sud pontino. Il Comune, quando l’Enea dimostrò la presenza di masse metalliche, parlò di vasetti di omogeneizzati scaduti interrati nel vecchio sito. Persino l’omicidio del vecchio parroco, don Cesare Boschin, trovato incaprettato nel 1995 dentro la sua canonica è rimasto senza colpevoli e senza testimoni. “Don Cesare era un prete all’antica – raccontano i parrocchiani – e la domenica girava casa per casa, vendendo le copie di Famiglia Cristiana. E le donne gli raccontavano tutto, anche degli strani viaggi compiuti dai figli, portando i bidoni”. Il vecchio prete annotava e denunciava. Fino al giorno del suo omicidio, quando dalla canonica sparirono solo due agende. Oggi l’associazione Libera di Don Ciotti chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio. E un passo avanti nella ricerca della verità è stato fatto: la Regione Lazio ha dato, finalmente, il via libera a un finanziamento di 850mila euro che entro la fine del 2012 dovrà stabilire, grazie anche ad una commissione di esperti, se e cosa è sepolto sotto metri e metri di terra.

di Riccardo Gardel

Articolo Precedente

Caccia: una strage senza fine e senza senso

next
Articolo Successivo

Roma corre contro l’emergenza rifiuti
In pole position Cerroni, “re” di Malagrotta

next