La chiamano generazione 9/11. I ragazzi cresciuti col timore che la luce si possa spegnere, senza nessun preavviso, per mano di un nemico invisibile. Quelli che dieci anni fa erano ragazzini e hanno perso negli attentati la madre, il papà, i nonni, tra il Word Trade Center, il Pentagono e l’aereo United 93. Una generazione mutilata la mattina dell’11 settembre di dieci anni fa. «Soprattutto per i ragazzi di New York, quella tragedia è ormai parte indelebile del loro Dna», teorizza Christy Ferer, moglie dell’ex direttore della Port Authority, Neil D. Levin, morto nel crollo delle Torri. Numerosi studi condotti su scala nazionale negli ultimi 10 anni rivelano un’incidenza di problemi psichici assai maggiore tra gli ex bambini newyorchesi, con punte massime tra quelli che hanno perso un parente nell’attacco.

Quel giorno, Paul Simon, uno dei musicisti più fini dell’ultimo mezzo secolo, non trovò altre parole che “non so se riuscirò a incidere il prossimo disco”. Non lo sapeva. Perché nessuno, in quelle ore, aveva la percezione di quello che sarebbe accaduto uno o due minuti dopo. Non c’era nessuno che sapesse quante vite avrebbe potuto mangiarsi la macchina del terrore. George W. Bush girava sull’Air Force One, perché questo prevede il protocollo in caso di guerra. Da lì a breve le Twin Towers si sarebbero squagliate come la neve sotto il sole primaverile, in pochi secondi. E la nuvola, quella che le immagini della Cnn ci hanno proposto per dieci anni, la polvere, la paura, la fuga.

Questo fu New York la mattina dell’11 settembre. Una nube sotto la quale nessuno sapeva a quale apocalisse ci saremmo trovati di fronte una volta dissolta. “Quel giorno”, ha detto Bruce Springsteen, “ho scoperto la grande nobiltà delle persone. Non il tipo di nobiltà di cui si legge nei libri, ma quella che porta la gente ogni giorno al lavoro”. La portano a costruire un pezzetto della loro vita. O, appunto, a ricostruirla.

Appunto. Ricostruire. New York ci sta già riuscendo, ma perché è New York, la città delle mille luci, il motore degli Stati Uniti, poetica e solida, la città dove l’America inizia e dove l’America finisce. Racchiude un intero paese. E là dove c’era il World Trade Center ci saranno, entro pochi anni, altri grattacieli, tornerà la vita rimasta sospesa e che sarà ricordata in un memoriale.

Una prova lunga 10 anni, e mai finita. Eppure ne avevano viste fino a quel giorno i signori sessantenni della generazione di Springsteen e Paul Simon. L’America ha sempre abituato a grandi spunti e frenate improvvise, crescite e catastrofi di Wall Street. C’era stato Pearl Harbor, l’omicidio di JFK, la guerra del Vietnam, la strage di Oklahoma City, ma quel giorno la guerra, per la prima volta, entrò nelle case, tra i grattacieli del World Trade Center e le palazzine dell’Upper West Side.

I giornali di tutto il mondo non trovarono altro titolo che “Niente sarà più come prima”. Non perché sapevano, ma semplicemente perché il mondo incollato al televisore non era in grado di prevedere niente di quello che sarebbe accaduto. Nei giorni e negli anni a seguire anche il nostro vocabolario si sarebbe arricchito di parole come guerra al terrore, jihad, talebani, mujahidin, Al Qaeda. Ma sono tutte cose che sarebbero arrivate dopo. “Niente sarebbe stato come prima”, e non The Times they are a-changin’, come mezzo secolo prima cantava Bob Dylan. Non c’era una fase di evoluzione, solo una assordante esplosione. L’apocalisse e l’attesa del dissolversi di una nube per capire quanti cadaveri il cemento ci avrebbe restituito, ma soprattutto quale sarebbe stato il futuro del mondo.

Oggi possiamo dire che quel niente sarà come prima si è avverato. La crisi economica, quella che oggi terrorizza l’Occidente più di quanto non sia riuscito realmente a fare Bin Laden, è figlia anche e soprattutto di quel giorno. L’imponente crescita del mercato cinese ha avuto un’evoluzione fuori controllo e sconquassato quelle che erano le previsioni, l’Occidente ha speso energie e miliardi su miliardi per la lotta al terrore tanto da perdere di vista quello che gli accadeva sotto gli occhi.

Da spettatori oggi possiamo dire che quella dell’11 settembre è stata, è ancora, la prova più dura. L’America ha cercato di reagire subito, ma solo oggi può dire di aver portato a casa qualche minimo risultato e ancora la strada è maledettamente difficile. L’utile è costato troppo, forse. Lo si capisce anche dalle parole di Barack Obama, pronunciate ieri, al mondo intero: “Volevano diffondere il terrore, ma da americani rifiutiamo di vivere nella paura. Volevano trascinarci in una guerra senza fine, minare la forza e la fiducia della nostra nazione. Riflettiamo su un duro decennio di conflitti, ma ora dobbiamo guardare avanti, è tempo di costruire”.

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