Il dipartimento per l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pubblicato nelle scorse settimane i numeri relativi ai contributi versati dallo Stato agli editori di giornali e periodici nel corso del 2010, in relazione al 2009.

Otto elenchi, in formato .pdf con i nomi degli editori che hanno beneficiato dei contributi, il nome della testata e l’importo loro riconosciuto.

Nessuna possibilità per il cittadino – salva l’ipotesi di utenti informaticamente più smaliziati e capaci di esportare i dati contenuti nelle tabelle in fogli excel – di sommare ed incrociare le informazioni pubblicate.

Un classico esempio di trasparenza all’italiana: si pubblicano centinaia di migliaia di bit di informazione online con modalità tali da rendere l’operazione pressoché inutile.

Anni luce lontani dalla politica dell’open data che, partita negli Stati Uniti d’America di Barack Obama sta, fortunatamente, contagiando il resto del mondo.

Ma al dipartimento dell’Editoria si sono, evidentemente vergognati di pubblicare anche subtotali e totali relativi all’importo complessivamente liquidato a titolo di contributi.

Avrebbero dovuto raccontare ad un Paese al quale, da ogni parte, si chiede di stringere la cinta e nel quale si mettono, costantemente, le mani nelle tasche dei cittadini che, nel solo 2010, oltre 150 milioni di euro sono andati a finanziare editori di giornali, il più delle volte, poco conosciuti o niente affatto conosciuti.

Quasi tre milioni e mezzo di euro al minuscolo Il Foglio di Giuliano Ferrara ed altrettanti al Primorski Dnevnik, quotidiano in sloveno, pubblicato a Trieste.

E’ di più di sei milioni di euro, invece, il contributo versato a L’Unità mentre deve accontentarsi di poco meno di quattro milioni di euro quello a La Padania, organo di stampa della Lega Nord.

Quasi tre milioni di euro per le Cronache di Liberal, mentre oltre tre e mezzo sono quelli per Europa.

Numeri e cifre che lasciano senza parole, così come senza parole lasciano i milioni di euro distribuiti tra editori piccoli o piccolissimi per la pubblicazione di minuscoli giornali e periodici di settore.

Oltre 500 mila euro all’editore di Carta mentre appena 277 mila sono andati all’editore di Chitarre, solo per fare qualche esempio.

Un fiume di denaro che con l’alibi di dover garantire il diritto a fare informazione, lo Stato, ogni anno, regala – naturalmente con i nostri soldi – a centinaia di editori e a cooperative di giornalisti più o meno reali, ad amici e amici degli amici.

Sono contributi e finanziamenti dei quali, peraltro, si fa fatica a seguire le tracce fino ai reali beneficiari: i soci degli editori e, spesso, delle cooperative giornalistiche che si nascondono dietro ai nomi delle società editrici.

Basterebbe integrare le tabelle rese disponibili dal dipartimento dell’Editoria con i dati relativi alla titolarità di quote e azioni delle società e cooperative che beneficiano dei contributi o, ancora più semplicemente, con un link alla scheda di ogni editore contenuta nel Registro unico degli operatori di comunicazione tenuto dall’Autorità Garante per le comunicazioni.

Nessuno, tuttavia, ha voglia e interesse a rendere accessibili questo genere di dati e, d’altra parte, la stessa Autorità Garante consente – peraltro solo da pochi mesi – di accedere al registro degli operatori di comunicazione, unicamente per sapere se un editore vi è iscritto oppure no, ma non permette – con decisione di dubbia opportunità – l’accesso ad altre aree del registro relative, appunto, alla titolarità delle quote degli editori di giornali.

Perché un cittadino non dovrebbe poter sapere a chi appartiene, davvero, un giornale che pur non avendo mai letto e, magari, del quale non ha mai neppure incrociato in edicola la copertina, è costretto a finanziare?

Che senso ha pubblicare i dati relativi ai contributi all’editoria senza porre i cittadini nella condizione di conoscere le dimensioni del fenomeno, quali sono i criteri in base ai quali fiumi e rivoli di denaro finiscono nelle tasche di questo o quell’editore, quante copie dei giornali e periodici sovvenzionati con risorse pubbliche sono state davvero distribuite nel Paese, in quanti hanno beneficiato dell’informazione prodotta con i soldi dello Stato?

Ma, ancor prima, che senso ha, nel 2011, sovvenzionare con ingenti risorse pubbliche di un Paese in piena crisi economica, decine e decine di giornali di carta e inchiostro…

Nel secolo della Rete, per garantire a tutti la libertà di fare informazione basta molto meno: risorse di connettività a volontà, piattaforme di blogging e qualche euro di pubblicità per farsi conoscere online.

L’informazione che vale troverà lettori e mercato e sopravvivrà mentre quella che, a giudizio dei lettori, varrà di meno, scomparirà come è giusto che sia e come avviene in ogni altro mercato.

Che senso ha tenere in vita dinosauri del vecchio impero dei media che danno poco al Paese e prendono e pretendono molto.

Quali e quanti giornali e periodici, negli ultimi mesi, hanno inserito i contributi all’editoria nei loro interminabili elenchi di sprechi e sperperi di Stato da arginare ed eliminare?

Di “caste” nel nostro Paese, ce ne sono tante e quella degli editori di giornali difende se stessa esattamente come quella dei politici e di certi imprenditori: sono sempre i soldi destinati agli altri a dover essere risparmiati.

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