“Io sono fatto così” dice De Lisi “più provano a fermarmi e più reagisco con il doppio della convinzione” e infatti il 23 maggio, mentre a Palermo veniva celebrata la ricorrenza dell’attentato di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta, a Como veniva sfregiata la lapide in ricordo del giudice, vicino all’albero di faggio piantato lo scorso 5 marzo dallo stesso De Lisi e dalla sorella di Giovanni Falcone, Maria.

Un anno fa veniva piantato a Como nel cortile della scuola Caio Plinio un albero in ricordo del giudice, e poco dopo qualcuno, nella notte, entrava nella scuola e lo abbatteva, strappando anche tutte le lettere che gli studenti avevano deposto.

L’albero non viene ripiantato subito ma un anno dopo, sul lungolago di Como, e precisamente il 5 marzo di quest’anno, di nuovo insieme a Maria Falcone e a Mauro Roncoroni sindaco antimafia di Cermenate, dove sorge e presto sarà operativa la scuola antimafia del progetto San Francesco.

È il 7 maggio quando a Cermenate vengono consegnate le chiavi della villa, bene confiscato alla ‘ndragheta, dove sorgerà la scuola, in una cerimonia alla quale sono presenti Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Reggio Calabria, e il figlio di Giorgio Ambrosoli, al quale la scuola è dedicata.

Il 23 maggio mani ignote danneggiano e sfregiano la targa dedicata a Falcone sulle rive del lago di Como, “ma questa volta abbiamo chiesto un albero grande, non come quello del Caio Plinio, che era piccolo ed è stato facile da spezzare. Così non hanno potuto abbatterlo e si sono accaniti sulla targa”, afferma De Lisi.

“Un tempismo perfetto”, continua, “tale da far pensare che un collegamento con la nostra attività c’è eccome. Significa che stiamo facendo bene, che la nostra azione è incisiva, che diamo fastidio”.

San Francesco è il nome di un progetto sindacale che mette insieme gli edili, le banche e la polizia e si articola su due livelli: uno tecnico per elaborare strategie di risposta concreta nella lotta alle mafie partendo dai territori, e uno comunicativo e sociale. “È necessario per noi farci riconoscere. Veniamo da una serie di esperienze sindacali diverse e ora collegate in rete, solo così possiamo essere efficaci”, ci spiega De Lisi. “Va ridisegnato l’intero capitolo delle leggi antimafia e degli appalti pubblici del nostro Paese, i protocolli di legalità attuali non sono sufficienti. Nell’edilizia ad esempio il nuovo caporalato è lo strumento di infiltrazione della criminalità, oggi i caporali sono commercialisti con giacca e cravatta che, in sinergia con la criminalità, propongono ai lavoratori edili di aprire la Partita Iva. Una finta Partita Iva, il committente è uno solo. Stessa cosa vale per i lavoratori del settore bancario e delle assicurazioni. Anche qui c’è un vero e proprio racket da parte delle mafie nella gestione dei servizi bancari in outsourcing. Il meccanismo è analogo a quello dell’edilizia per cui i lavoratori sono presi come consulenti, a Partita Iva, ma in questo caso sono esposti a ulteriori rischi. La normativa vigente infatti non persegue penalmente il direttore della filiale o il rappresentante legale della società, quindi davanti a operazioni bancarie poco trasparenti il rischio ricade tutto sulle spalle del lavoratore: rischia di essere licenziato nel caso in cui decida di denunciare l’illecito e contemporaneamente di finire in carcere se non lo denuncia”.

Il problema è legato all’attuale certificazione antimafia che costituisce solo un palliativo dal momento che è richiesta per l’impresa ma non per tutta la filiera: non è necessaria per i procuratori legali, per i commercialisti e per i fornitori. “Accade così che imprese controllate dalla criminalità operino in maniera del tutto legale e alla luce del sole. La realtà è che il potere delle cosche al nord è passato dall’essere un potere prettamente finanziario a una nuova modalità che usa le forme della legalità nella gestione delle proprie attività alla luce del sole”.

di Alessandro Micci

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