Ho aspettato a intervenire, perché è un argomento delicato, anche se per addetti ai lavori visto quello che sta succedendo nel mondo. Inoltre sono parte in causa, essendo uno degli autori di Exit, il programma di Ilaria d’Amico che due mercoledì fa ha ospitato la performace guerrigliera di Paolo Flores d’Arcais in una puntata dedicata alla Lega, mentre l’ultima puntata ha trasmesso un’inchiesta approfondita sulla mafia da nord a sud, e sui rapporti pericolosi e spesso sottovalutati tra il crimine organizzato e i politici che ci rappresentano. Volevo ricordare la differenza clamorosa con la quale media e opinionisti hanno trattato le due puntate, e offrire al vostro giudizio la morale della favola.

Ampio risalto alla performance di Paolo Flores d’Arcais, alle sue urla, ai nostri tentativi  di ristabilire un clima civile. Al contrario: silenzio assoluto sulla mafia. Silenzio anche sul fatto che per la prima volta negli ultimi anni si tentava un’inchiesta sulla Lega che andasse al di là dei servizi folcloristici o sulla Lega razzista e xenofoba. Non parlo di audience: entrambe le puntate hanno dato un risultato non troppo brillante.

Eppure l’urlo ha “fatto notizia”, mentre la qualità giornalistica delle inchieste e la discussione pacata tra politici, giornalisti, magistrati e professionisti come Umberto Ambrosoli, notizia non ne ha fatta alcuna. Grandi complimenti personali da giornalisti, intellettuali, telespettatori (che poi è quello che dovrebbe contare, o no?), ma nessuno che abbia scritto una riga, non un critico che abbia notato che mentre su Rai Uno andava in onda la paccottiglia patriottica di Pippo Baudo e Bruno Vespa, vestiti come si usava nel monocolore catodico-democristiano degli anni ‘50 (ma si sa, l’abito non fa il monaco) su La7 c’era un’altra Italia.

Quando di mafia parla una star come Saviano, i critici guardano il dito (la star) e non la luna (la mafia), quando di mafia ne parlano umili giornalisti o servitori dello stato, i critici tacciono.

Il gioco che va di moda ora sui giornali che contano è rimproverare lo scadimento dei talk-show urlati, e ignorarli quando si dedicano a puntate dal taglio editoriale approfondito e pacato, se non sono premiati dall’audience. Solo quando l’ascolto è alto, se ne parla (è il caso di Santoro con la sua puntata sulla globalizzazione). A dominare è la legge dell’audience, ma non tra i pubblicitari, cosa assolutamente legittima, ma tra l’opinione pubblica. La stessa legge della politica a caccia di sondaggi per decidere sul nucleare o su qualunque altra cosa.

Il coraggio di essere impopolari o di dichiarare la qualità di qualcosa a prescindere dal suo immediato risultato in termini di consenso, è ormai un tabù. Per farsi notare, bisogna spararla forte, chisseneimporta se quel che diciamo è vero o falso. L’importante è che sia uno show capace di bucare lo schermo. Che ci siano polemiche tanto più accese quanto sterili.

Cari tutti, va anche bene, e io faccio parte di questo stesso meccanismo, ma volevo solo ricordare che il marchio di fabbrica è di zio Silvio, e chiederei dunque a tutti di smetterla di pensare di essere così diversi, o, parafrasando il più greve Ricucci, di fare i puri con le invenzioni degli altri.

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