Non c’è che un unico argomento in tutti i media da molti anni. Sembra impossibile non pensarci. Ed anche quando si prova a non pensarci, qualcuno ne parla comunque. Ogni santo giorno.

È contro-intuitivo, ma anche i sintomi psicologici svolgono una loro funzione all’interno della nostra economia psichica, lo diceva il vecchio Freud quando affermava che il sintomo, in quanto difesa, è già l’esito di un compromesso, un tentativo di cura. Difficile ammettere che un male serva a qualcosa in un equilibrio che abbiamo costruito. Come un mattoncino marcio e sbilenco di un edificio che se togliamo forse (forse) casca tutto. E invece no, quel mattoncino sta lì e lo lasciamo proprio lì dove si trova perché attira la nostra attenzione, ne abbiamo in qualche modo bisogno. Di più, non riusciamo a distogliere lo sguardo da esso, ci orienta nello spazio, ci organizza la mente. È proprio quanto accade con i pensieri persecutori, conditi di indignazione, rabbia, vendetta oppure con i pensieri ossessivi caratterizzati invece da un’irrefrenabile attraente repulsione. Provate a farne a meno nel momento in cui occupano la vostra mente e scoprirete che è davvero un’impresa soppiantarli (ma non è impossibile).

La nostra società occidentale da molto tempo “gira” con una sorta di “sistema operativo” monopolistico che si chiama neo-liberismo, che ci piaccia o no questo sistema non conosce realistiche alternative da almeno 40 anni, direi anche da un secolo. Questo software monopolistico si presenta come non-ideologico (anzi come anti-ideologico), ma in realtà è, come l’aria che si respira, enormemente più pervasivo e indottrinante di qualunque forma di ideologia e di religione essendosi di fatto incistato in ognuno di noi senza necessità di esercitare alcuna violenza, ma con il nostro attivo consenso e la semplice persuasione di uno stile di vita di fatto diventato ubiquitario, come il “migliore dei mondi possibili”. Praticamente obbligatorio per ciascuno di noi pensare alle idee di progresso, felicità, benessere, consumo, individualismo, interesse personale, come idee portanti del nostro stile di vita, ma anche delle nostre rappresentazioni, aspettative, fino ad arrivare agli atteggiamenti, ai comportamenti d’acquisto, alla gestione della quotidianità e della temporalità, e infine delle relazioni.

Si dà il caso che la versione nostrana del neo-liberismo è da molti anni proposta da un unico profeta che ne interpreta fedelmente il carattere antropologico locale, ma che, come sostiene Giorgio Agamben riprendendo Guy Debord, è anche il frutto di un trentennio di una propaganda spettacolarizzata che ha costruito la realtà che oggi noi tutti abitiamo.

Impossibile per un vero credente non pensare e non ringraziare devotamente ogni giorno il proprio Creatore. Impossibile per noi abitanti del mondo-mercato non pensare al grande architetto e signore del centro commerciale nel quale viviamo da trenta anni (“colui che disegna l’aeroplano mentre ci viaggia sopra”, come disse una volta un nostro acuto collega). Marc Augé definisce i centri commerciali come dei non-luoghi; analogamente noi definiamo lo spazio psico-politico del neo-liberismo (specie quello in salsa italiana) come uno spazio ipnotico di sospensione e disidentità.

Riassumendo: unico modello di società, unico stile di vita, unico profeta nazionale, unico argomento quotidiano dei media. Non si sfugge.

Il teatrino mediatico dove si mette in scena il conflitto tra adoranti e detrattori del profeta è pura apparenza che serve a riprodurre all’infinito la noiosissima finzione della contesa tra gruppi (nello stile degli ultrà da stadio). Contesa finta, appunto, dal momento che non sono in ballo due (o più) stili di vita o due (o più) sistemi economico-politici, ma solo un unico modello in versioni solo apparentemente diverse.

A che serve allora continuare a pensare, ripensare, parlare e riparlare fino allo sfinimento del profeta tutti i santi giorni per anni, riempire tutti i media delle sue imprese? Non c’è dubbio, in un’ottica psicologica tale funzione rappresenta nel bene e nel male un “organizzatore psichico” potentissimo per tutti, una bussola, un “oriente”, sia che esso sia un modello a cui tendere (sintomo ego-sintonico) o un nemico da abbattere (sintomo ego-distonico). Nel primo caso la gratitudine per chi si occupa di noi e risponde al nostro spaesamento con telegenica e passivizzante rassicurazione sconfina con la deresponsabilizzazione, il disimpegno civico e l’abdicazione etica; nel secondo caso il risentimento ostile verso chi non sentiamo che ci rappresenta sconfina con l’ossessione di chi è o si sente oppresso. In entrambi i casi rispondiamo ad istanze interne prima ancora che a realtà esterne. In entrambi i casi questo si conferma l’asse planetario intorno al quale svolgiamo il nostro movimento.

Tornando alla metafora del sintomo psicopatologico, ogni sintomo vorrebbe imporsi come “religione privata”, come codice-sorgente del sistema operativo, come organizzatore esclusivo della mente e della sua economia interna. Il sintomo, come il profeta, ci obbliga ad averlo sempre presente sia che se ne parli bene, sia che se ne parli male, sia paradossalmente che si decida di non parlarne.

Ed allora, ci si domanderà, come si fa ad andare oltre questa aria che si respira? Noi, come psicologi, non vogliamo preconfezionare risposte, ma limitarci a fare buone domande. A voi la parola o, se volete, il silenzio.

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