Basta petrolio, vogliamo le rinnovabili. L’appello, ormai scontatissimo, è diventato da tempo un leitmotiv. Buono per le sincere campagne ecologiste, ma anche per quelle pre e post elettorali dei leader politici dell’Occidente. Solo che questa volta la richiesta appare quanto meno curiosa. Già, perché a chiedere a gran forza un deciso cambio di rotta nelle strategie energetiche, oggi, non sono né i gruppi ambientalisti né, tantomeno, qualche capo di Stato folgorato sulla via del prossimo G20. Dietro all’ultimo appello green, che ci crediate o meno, c’è, al contrario, un soggetto dal curriculum decisamente poco eco-friendly: il corpo dei marines degli Stati Uniti.

Quella resa nota in questi giorni dal New York Times è una storia decisamente sorprendente. Una vicenda che suscita stupore e promette, al tempo stesso, di avere un seguito importante. Provocando anche, chissà, una vera e propria rivoluzione nelle strategie belliche se non, addirittura, negli equilibri di quell’arcinoto soggetto che quasi mezzo secolo fa fu definito da Dwight Eisenhower come “complesso militare industriale”. Tutto ha inizio nel 2006, nel pieno del conflitto iracheno. Richard Zilmer, direttore delle operazioni Usa nell’ovest del Paese, scrive ai suoi superiori a Washington per esprimere le sue preoccupazioni. I continui attacchi ai convogli del trasporto carburanti espongono i soldati a crescenti rischi. Meglio, molto meglio, ricorrere alle energie rinnovabili, sviluppandole, perché no, direttamente sul posto. L’Iraq pullulerà pure di oro nero, ma non è forse anche una terra baciata dal sole?

A distanza di quattro anni la proposta ha trovato un’applicazione concreta nella bellicosa provincia di Helmand, nell’Afghanistan meridionale. I 150 marines del terzo battaglione/prima compagnia si preparano a dire addio ai combustibili fossili con l’obiettivo di trasformare la loro base in un centro autosufficiente sotto il profilo energetico. I militari, riferiscono le cronache, avrebbero già iniziato ad installare i pannelli solari destinati a raccogliere l’energia necessaria. Quella di Helmand, in ogni caso, non rappresenta un’iniziativa isolata. L’anno passato, ha sottolineato il New York Times, la marina ha varato la sua prima portaelicotteri d’assalto “ibrida” che combina i motori a combustione con quelli elettrici. Entro il 2011, intanto, l’intera flotta area militare sarà in grado di alzarsi in volo alimentandosi indifferentemente con i carburanti tradizionali o i biofuels.

Ad alimentare questa new wave energetica, ovviamente, c’è prima di tutto una valutazione sui costi. Negli ultimi anni, ricorda ancora il quotidiano newyorchese, le tecnologie legate alle rinnovabili sono diventate più efficienti. A parità di energia prodotta, in altri termini, il prezzo è diminuito. I costi di utilizzo delle energie tradizionali nelle zone di guerra, al contrario, si mantengono elevatissimi. Durante il trasporto dal luogo di origine alla base militare più remota, assicura l’esercito, il costo effettivo di un gallone di gas liquido può aumentare anche di 400 volte.

Nelle forze armate Usa la diffusione di soluzioni energetiche alternative è ancora alle fasi iniziali ma la crescente voglia di pannelli solari e biocarburanti potrebbe fare la fortuna dell’apparato “green”. L’intero settore scalpita. E con il placet dell’apparato militare, un giorno non troppo lontano, potrebbe anche assumere un ruolo da protagonista tra le file di quel celebre “complesso” che tanto preoccupava il vecchio Ike. Costringendo i petrolieri a una scomoda convivenza.

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