Il becchino di Poggibonsi gli ha dato buca. Aveva accettato di seppellire i resti, intascato il compenso, detto che venissero pure, e invece quando sono arrivati non c’era, troppo rischioso. Così Alessandro Carosi e la sua nuova compagna si sono rifugiati in un bosco e hanno acceso un falò. Ma le fiamme hanno fatto accorrere i contadini e i due sono scappati, portandosi dietro il cadavere a pezzi che avrebbero dovuto bruciare. Nella fretta hanno perso un braccio, il destro, e alla mano di quel braccio c’era un anello, assassini e anche fessi, e all’interno dell’anello c’era scritto “Sandro e Tina”, Tina era Assunta Benedetti, amante e convivente conosciuta in una balera e fatta fuori quando Carosi s’era trovato una nuova fiamma. Per i carabinieri non è troppo difficile risalire a lui.
Si vantava: “11 omicidi e 20 ferimenti”. Sparisce per vent’anni tra protezioni e omertà
È il 1931, anno IX dell’Era Fascista, e in quell’Italia dove i giornali hanno il divieto di parlare di delitti sarebbe soltanto un omicidio tra i tanti. Brutale, sì, ma in quegli anni le donne soppresse si usa farle a pezzi: Cesare Serviatti, il Landru italiano, nel 1928 le seziona, le mette in una valigia e gli fa fare un viaggetto in treno. Alessandro Carosi però non è un assassino qualsiasi (femminicida non si usa ancora) ma uno degli squadristi più in vista della Toscana.
Figlio di un industriale, alto un metro e novantotto, violento e sadico, agli amici e agli avversari si presenta con un lugubre e gradasso “Tenente Carosi, undici omicidi e venti ferimenti”. Nel 1924, durante una spedizione punitiva, ha pugnalato a morte un tipografo anarchico. A un altro oppositore, dopo aver fatto irruzione in un’osteria, ha messo una mela in testa prima di prendere la mira. Uccisore di avversari, Carosi terrorizza anche i camerati, che lo vivono come un pazzoide. E raccontano che una volta, alla festa per l’apertura di una sezione fascista, aveva preso la pistola e si era messo a sparare all’impazzata: chi non batteva ciglio era un vero italiano, chi scappava si meritava una palla. Il tribunale lo condanna, un’amnistia lo rimette presto in circolazione. Intanto ha aperto una farmacia a Vecchiano in quel di Pisa, e si è fatto nominare podestà del paese. Nel 1931 finisce al gabbio, in Sicilia, e ci resta fino al 1943. Poi ritorna a Vecchiano e dintorni e si mette al servizio dei tedeschi: c’è anche la sua mano omicida nell’eccidio di Guardistallo del 1944, 63 vittime civili uccise dalla Luftwaffe.
Dopo la guerra, inseguito da una condanna a diciott’anni, Carosi si volatilizza. Non si saprà più niente di lui fino al 29 gennaio 1965, quando il dottor Filippo Filippi, farmacista e proprietario di un laboratorio di analisi, si presenta al San Giovanni di Roma colpito da trombosi cerebrale, per morire il giorno dopo. La polizia scopre che Filippi è il latitante Carosi e Umberto Terracini presenta un’interpellanza al ministro agli Interni Taviani: “Che tutto ciò abbia potuto verificarsi fa sorgere fondatissimo il sospetto di complicità, di protezioni, di omertà, e non tanto in basso loco”.