“In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. Attribuita a Winston Churchill, questa battuta feroce fotografa il carattere di una nazione poco propensa ad assumersi responsabilità. Gianni Oliva, storico di vaglia che con i suoi libri ha messo più di una volta il dito nelle piaghe dei nostri accadimenti recenti – i crimini di guerra con “Si ammazza troppo poco”, l’esodo dalmata e istriano con “Profughi” e “Foibe” – da questa battuta ha preso spunto per il recentissimo “45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il ventennio” (Mondadori). Lo abbiamo interrogato sul nostro “26 aprile” all’insegna della rimozione collettiva.
Perché non abbiamo fatto i conti con il ventennio?
Per tante, troppe ragioni. Essenzialmente per due: perché c’era una classe dirigente che occorreva traghettare dal fascismo alla Repubblica, e perché le forze moderate, sostenute dagli anglo-americani, sentivano il bisogno di spegnere il “vento del Nord”, che chiedeva un cambiamento radicale. E poi perché l’Italia voleva assolversi, convincersi di avere vinto una guerra che aveva perso. Del resto, le epurazioni radicali riescono poche volte nella storia. Riuscirono con la rivoluzione francese, perché c’era una borghesia pronta a prendere il posto di un’aristocrazia esausta. Non hanno avuto successo, per restare ai tempi nostri, in Iraq dove hanno partorito l’Isis, e in Libia, dove non è azzardato dire che si rimpiange Gheddafi. Da noi l’epurazione fu poca cosa. Volarono gli stracci.
Le epurazioni riescono poche volte. E oggi? In Iraq hanno partorito l’Isis, in Libia si rimpiange Gheddafi
Com’è nata la narrazione della guerra vinta?
È nata nel 1946, con il famoso discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace di Versailles. Di fronte alle nazioni vincitrici, il leader moderato che aveva sostituito il partigiano Ferruccio Parri alla guida del governo sostenne che l’Italia era vissuta per vent’anni sotto il pugno di ferro della dittatura, che si era imposta con la violenza e con il terrore. L’Italia, disse, aveva sempre avversato il fascismo con la tenacia dell’opposizione interna e con l’abnegazione degli esuli, e infine con l’eroismo della lotta partigiana e con il nostro esercito che aveva combattuto assieme agli Alleati.
Le leggi sulla razza del ’38 portarono alla rimozione di 231 professori ebrei. Nessuno si levò per difenderli, partì invece una miserabile gara a occupare i posti vacanti
Insomma, il fascismo come parentesi, come “invasione degli Hyksos”, secondo la celebre formula di Benedetto Croce. Non era vero?
Era vero soltanto in parte. Certo, gli antifascisti durante il ventennio furono eroici, ma erano una minoranza. E altrettanto si può dire della Resistenza: la parte migliore dell’Italia, indispensabile perché stessimo dal lato giusto della storia e non dovessimo vergognarci troppo di noi. Ma minoritaria, poche centinaia di migliaia di uomini in armi, e circoscritta all’Italia centro-settentrionale. E invece, il mito della Resistenza come insurrezione generale, come “guerra di popolo”, fu l’alibi per passare un colpo di spugna sulle colpe di una nazione che il fascismo l’aveva accettato e sostenuto con l’acquiescenza, quando non con l’aperto entusiasmo. L’Italia non aveva subito il fascismo: l’aveva inventato, esportando il suo modello dittatoriale in tutto il mondo. E aveva combattuto con gli Alleati soltanto le ultime battute della guerra, dopo avere firmato una resa incondizionata. Prima, era stata al fianco dei nazisti invadendo la Francia, la Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, l’Unione Sovietica e l’Egitto.
E commettendo crimini di guerra.
Che non furono perseguiti. Le Nazioni Unite stilarono un elenco di duemila criminali italiani, che tuttavia non vennero mai consegnati ai Paesi che li chiedevano per giudicarli e che, quando finirono sotto processo in Italia, vennero quasi sempre assolti. È esemplare il caso di Rodolfo Graziani, che usò i gas contro l’Etiopia e combatté con la Repubblica di Salò contro partigiani e anglo-americani. L’estradizione chiesta da Addis Abeba venne respinta e lui, condannato a diciannove anni di carcere per collaborazionismo con i tedeschi, fece solo quattro mesi in galera prima di tornare libero.
E di incontrare sulla sua strada Andreotti.
Già, il famoso “bacio di Arcinazzo” del 1953, quando Graziani diventato nel frattempo missino elogiò la Dc. Dicono che in seguito Andreotti abbia baciato anche Totò Riina. Avesse baciato più donne…
Non perseguire gli italiani autori di crimini regalò l’impunità anche ai tedeschi.
A un De Gasperi che non sapeva che pesci pigliare, nel 1946 l’ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, suggerì di non processare i militari tedeschi autori di stragi nel nostro Paese, perché questo avrebbe aperto le porte alle richieste di estradizione contro i nostri. Il famigerato “armadio della vergogna” in cui vennero nascosti i circa 700 dossier contro i nazisti che si erano macchiati di crimini in Italia, nacque così.
Eppure, Badoglio nelle sue memorie ha sostenuto che l’entusiasmo per l’entrata in guerra a fianco della Germania sia stato soltanto di facciata…
Badoglio ha mentito e falsificato, per nascondere le sue responsabilità. Invasore dell’Etiopia, corresponsabile della guerra al fianco di Hitler, si è accreditato come avversario di Mussolini, assieme ai circoli monarchici. Non lo è stato, e la gente che ascoltò Mussolini proclamare l’entrata in guerra dal balcone di Piazza Venezia era in delirio, i cinegiornali Luce ne fanno fede. Ho su quell’epoca e su quel clima una testimonianza familiare: un diario tenuto mia madre, una mitissima insegnante di francese che nel 1945 definiva Mussolini “la bestia furiosa”, ma che nel 1939 si fece sette chilometri a piedi per andare a vedere il duce al Lingotto, a Torino. Il clima era quello.
Come si misura il consenso sotto una dittatura? I casi di dissenso non mancarono, e furono clamorosi. Per esempio i professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo.
Per misurare la portata del consenso occorrerebbe un dissenso alla luce del sole, che ovviamente sotto il fascismo non poteva esserci. Ma ecco, il caso dei professori ci offre l’opportunità di una piccola verifica empirica. Rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, imposto per legge nel 1931, tredici docenti universitari. Ma le cattedre erano 1.848, dunque giurarono in 1.835. Per molti anni ho fatto il preside, e sono stato preside anche del Liceo D’Azeglio di Torino, santuario dell’antifascismo. Riguardando i registri di allora, ho trovato traccia di Augusto Monti, professore di grande rigore e sapienza che ebbe fra gli allievi Cesare Pavese, Massimo Mila, Carlo Levi, Norberto Bobbio e altri, e che pagò il suo antifascismo con tre anni di confino. Ma al D’Azeglio i professori erano quarantadue. Gli altri dov’erano?
Molti dissero di essere stati persuasi da Croce a giurare per poter proseguire il loro insegnamento e non lasciar spegnere la “fiaccola della libertà”.
Gli intellettuali sanno parlare, si assolvono sempre. Norberto Bobbio, con rara onestà, ha ammesso che il fascismo non dovette fare ricorso alla coercizione per ottenere la fedeltà dei docenti. Bastò, scrisse, “un aggrottare di ciglia”. Del resto una riprova furono le leggi sulla razza del 1938, che portarono alla rimozione di 231 professori ebrei. Nessuno si levò per difenderli, partì invece una miserabile gara a occupare i posti rimasti vacanti. Quando dico che abbiamo traghettato una classe dirigente dal fascismo alla Repubblica parlo anche di loro. E dei giornalisti, degli autori di libri di testo, degli industriali, dei poliziotti, dei militari, dei magistrati, dei funzionari che furono complici o indifferenti.
A proposito di leggi razziali, nel 1938 il presidente del Tribunale della Razza era Gaetano Azzariti.
Per me Azzariti, abile come tecnico e, sospetto, soprattutto come tessitore di relazioni, è l’esempio perfetto dell’uomo per tutte le stagioni. Comincia la sua carriera sotto Giolitti, nell’Ufficio legislativo del ministero di Grazia e giustizia. Nel ventennio diviene capo dell’Ufficio e perciò stesso responsabile diretto o indiretto di tutta la legislazione fascista. Nel 1938 sovrintende al Tribunale della Razza e nel 1943, defenestrato Mussolini, Badoglio lo nomina ministro di Grazia e giustizia. Nel 1945 diventa consigliere di fiducia del nuovo guardasigilli Palmiro Togliatti e nel 1955 il democristiano Giovanni Gronchi lo nomina giudice della Corte Costituzionale, di cui sarà presidente dal 1957 alla sua morte, nel 1961. Con il paradosso tutto italiano di avere il costituzionalista Azzariti estensore delle sentenze che abrogano le leggi scritte dall’Azzariti fascista. Di questo suo traghettarsi disinvolto dalla dittatura alla democrazia nessuno, né Badoglio, né Togliatti né Gronchi, gli ha mai chiesto conto.
Il Tribunale della Razza era particolarmente odioso. Stabiliva, a suon di mazzette, chi era ebreo e chi non lo era. Con il risultato che molti ebrei, scrisse crudamente Piero Calamandrei, furono costretti a dichiararsi “figli di puttana”, accusando la loro madre di avere avuto una relazione con un ariano, per salvarsi la pelle.
Sì. Ci fu addirittura un agiato israelita che, dopo aver pagato una stecca di un milione e mezzo di allora, riuscì a salvare anche i nipoti, dichiarando di averli concepiti con la cognata ariana.
Che i moderati fossero per un trapasso indolore dalla dittatura alla democrazia non stupisce. Ma perché ci fu l’assenso della sinistra?
Non di tutta la sinistra, azionisti e socialisti furono nettamente contrari. Ci fu invece l’assenso dei comunisti, che intendevano scrollarsi di dosso l’etichetta di rivoluzionari terzinternazionalisti per diventare un partito nazionale e di massa, e avevano perciò bisogno di una politica conciliatoria che li rendesse, per così dire, più “digeribili”. Anche qui, ha vinto il trasformismo, il passato che non passa.
Gianni Oliva, storico e giornalista, è nato a Torino nel 1952. Si è laureato in lettere a indirizzo storico con Alessandro Galante Garrone. Insegnante, preside e docente universitario a contratto, è stato amministratore locale con il Pci-Pds. Nel 2005 è diventato assessore alla Cultura della Regione Piemonte. Fra i suoi molti libri, “45 milioni di antifascisti” (Mondadori), sull’autoassoluzione dell’Italia rispetto al fascismo e alla guerra. Ha appena esordito nella narrativa con “Il pendio dei noci” (Mondadori), ambientato nella prima guerra mondiale.