Il suo nome è Zoraya Ter Beek, ha 29 anni, è olandese e questo mese porrà fine alla sua vita tramite eutanasia. La donna, affetta da un disturbo autistico e da una depressione molto limitante da più di dieci anni, ha realizzato nel tempo di “non poter più vivere” e, dopo un’attesa di due anni, ha ricevuto l’autorizzazione al suicidio assistito. Dopo aver provato tutte le possibili terapie insieme a un gruppo ristretto di medici esperti, le conclusioni sull’evoluzione della sua malattia sono state negative e prive di prospettive di miglioramento, un elemento che ha convinto la donna a rivolgersi al Centro di consulenza sull’eutanasia locale.

Nei Paesi Bassi, dove l’eutanasia per problemi di salute mentale è regolamentata dal 2002, la vicenda ha riaperto il dibattito sulle opportunità e i limiti di questo strumento. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Massimo Reichlin, preside della facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele ed esperto in bioetica.

Professore, il caso in questione nei Paesi Bassi ha riacceso il dibattito su eutanasia e salute mentale. Quali sono le argomentazioni in favore di una simile pratica?
Le principali argomentazioni generali a favore dell’eutanasia sono due: da un lato, quella che fa leva sull’autonomia dei pazienti, dall’altro quella che sottolinea il beneficio che l’aiuto a morire procura loro, ponendo fine alle sofferenze connesse alla loro condizione di malattia. I casi in cui è in gioco la salute mentale sono controversi perché, in genere, si assume che l’argomento dell’autonomia funzioni in riferimento a persone pienamente dotate di intendere e di volere e quindi in grado di prendere decisioni razionali su di sé e sulla propria vita. In Olanda, da vari anni l’eutanasia volontaria è stata invece estesa anche a patologie di carattere psichiatrico. Naturalmente, non si può affatto escludere che le persone affette da malattie mentali possano essere in grado di prendere decisioni informate in merito, ma per l’appunto non si può presupporre che ciò valga in tutti i casi. D’altro canto, è rilevante sapere se la patologia mentale in questione sia trattabile oppure no; nel caso della depressione, in genere un trattamento dotato di efficacia è possibile, anche se, nello specifico caso olandese, sembra che non vi fossero speranze di miglioramento. In ogni caso, resterebbe anche l’argomento basato sulle sofferenze; alcuni pensano che l’eutanasia possa essere giustificabile anche in situazioni in cui il paziente non è più competente per decidere, a patto che vi siano sofferenze gravi e incoercibili. Si tratta di capire se, nel caso in questione, le sofferenze mentali di una ragazza giovane e fisicamente sana fossero davvero tali da non poter migliorare con alcun trattamento.

E quelle contro?
Le argomentazioni generali contro l’eutanasia sono di vario genere: alcune hanno un’impostazione di principio, ossia si basano sull’idea che uccidere un paziente sia sbagliato, vuoi perché la vita è, in generale, indisponibile, vuoi perché il medico non deve mai uccidere, vuoi perché la protezione delle persone vulnerabili è un compito primario delle norme morali. Altre argomentazioni, invece, fanno leva sulle conseguenze dell’uccisione pietosa, sottolineando ad esempio i rischi di abusi o la possibilità di un progressivo ampliamento delle maglie e dell’accettazione di casi sempre più problematici. Quello della malattia mentale potrebbe, in effetti, essere uno di questi casi: si può dubitare del fatto che, in queste circostanze, i pazienti siano pienamente autonomi e capaci di una decisione razionale. Se non lo sono, possono facilmente essere oggetto di influenze indebite e anche di vera e propria coercizione, se si tiene conto dei costi e delle difficoltà legate alla cura di pazienti cronici. Qui l’importanza morale della protezione delle persone vulnerabili potrebbe avere la priorità su un’autonomia che risulta quanto meno dubbia. Inoltre, si può anche osservare che, in questo modo, la medicina viene meno a quella che è la sua funzione primaria, che è di curare le malattie e prendersi cura dei disagi e delle sofferenze delle persone, e finisce per occuparsi di questioni diverse, di carattere esistenziale. Ora, ci si può chiedere se sia un bene che la medicina si occupi di risolvere, in questo caso in maniera drastica, difficoltà e disagi che attengono al senso della vita e al malessere esistenziale, o se per tali questioni non sia preferibile ricercare soluzioni meno medicalizzate.

Il professore di etica Theo Boer, un tempo sostenitore dell’eutanasia per problemi salute mentale, oggi si è epresso in più occasioni pubblicamente contro. Cosa non era stato previsto nel caso olandese?
Quello che Boer sottolinea, in linea con le argomentazioni ‘consequenzialiste’ richiamate, è come in Olanda (ma anche negli altri paesi in cui l’aiuto a morire è stato legalizzato) si sia verificato un enorme incremento sia del numero dei casi, che nei due decenni da quando la legge è stata approvata è quasi quadruplicato, sia delle condizioni di malattia che giustificano l’intervento, che sono passate da una considerazione quasi esclusiva di pazienti con tumore in fase terminale mentalmente competenti a una vasta serie di casi che includono varie condizioni non terminali, malattie psichiatriche, demenza e un numero crescente di minori. Tutto ciò senza alcun vero cambiamento della legge, ma solo attraverso una sua interpretazione in senso sempre più estensivo. Quello che forse non era stato previsto è che l’eutanasia viene sempre più concepita come una soluzione per problemi come la dipendenza nella malattia, l’isolamento sociale, la mancanza di senso, anche la semplice vecchiaia; la disponibilità dell’eutanasia incide profondamente sul modo in cui, a livello sociale, si concepisce una vita dignitosa e meritevole di essere vissuta e obbliga le persone bisognose di cura a chiedersi se davvero si vuole imporre a sé e agli altri quest’onere o se non sia meglio togliere il disturbo.

Qual è la sua idea in merito a questa vicenda?
La vicenda specifica della giovane paziente con problemi mentali trasmette una sensazione di obiettivo smarrimento. Bisogna evitare di giudicare casi specifici e ancor più le decisioni delle persone, ma viene spontaneo chiedersi se davvero non vi fosse nulla di più che potesse essere tentato per consentire a una persona di 29 anni di considerare la propria vita meritevole di essere vissuta, tenendo conto degli affetti su cui poteva contare e della piena salute fisica di cui disponeva. Più in generale, la mia impressione è che, al di là delle considerazioni di principio su cui è difficile trovare un consenso, la legalizzazione dell’aiuto a morire sia controversa per via dell’estrema difficoltà di mantenere la pratica sotto un autentico controllo sociale, consentendo che rimanga una soluzione estrema, per quei casi in cui davvero non vi è nessuna alternativa. Anche in un sistema molto efficiente e in un paese molto più piccolo e meno popolato del nostro, come i Paesi Bassi, questo scopo non è stato realizzato e l’eutanasia è diventata un modo per ovviare ad altre difficoltà. Il rischio che le persone vedano la morte come unica soluzione in un contesto di mancata assistenza, riduzione dei servizi, solitudine esistenziale è molto elevato, forse anche maggiore nel nostro paese in cui il sistema sanitario è in crisi e gli interventi di sostegno alla fase terminale della vita, come le cure palliative, l’assistenza domiciliare e gli hospice, sono ben lontano dall’essere adeguatamente sviluppati ed equamente diffusi in tutte le regioni.

Ci sono degli strumenti o dei limiti che possono migliorare una disposizione di legge simile?
Le leggi, inclusa quella olandese, prevedono generalmente delle condizioni abbastanza chiare per accettare il ricorso all’eutanasia. Come detto, il problema sta nella loro interpretazione e nel sentire comune che progressivamente si diffonde, spingendo verso un allargamento della tolleranza in materia. Anche la Sentenza n. 242 della Corte Costituzionale italiana aveva previsto quattro condizioni precise per delimitare i casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Successivamente, però, i tribunali hanno accolto casi in cui, ad esempio, la condizione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale risultava assente; accogliendo interpretazioni obiettivamente forzate del termine, che portano a considerare un ‘sostegno vitale’ qualsiasi trattamento – anche farmacologico – che risulta necessario per la sopravvivenza, i tribunali hanno dato l’avvio a un’opera di rimozione delle condizioni stabilite, secondo uno sviluppo già osservato in altri paesi. Va anche detto che, nel frattempo, il Parlamento non è intervenuto (come la Corte l’aveva invitato a fare) con un intervento legislativo per definire con precisione le condizioni e i confini di accettabilità della pratica; in questo modo, anche a seguito delle iniziative individuali delle diverse Regioni, si rischia di avere una situazione poco chiara e interpretazioni molto diverse da caso a caso.

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