Joshua Clover è uno scrittore, poeta e docente alla University of California, ateneo pubblico. Di origini ebraiche, ha scritto diversi libri tra cui Riot. Strike. Riot: The New Era of Uprisings, dedicato ai movimenti di protesta della contemporaneità. Con lui parliamo delle mobilitazioni degli studenti universitari a sostegno della Palestina e contro il governo di Israele che si stanno verificando in tutto il mondo e, in particolare, negli Usa.

Professor Clover, le chiedo innanzitutto una valutazione di quanto sta accadendo. Se lo aspettava? Qualcuno paragona le mobilitazioni in corso a quelle contro la guerra nel Vietnam, pensa che ci siano davvero delle somiglianze? È una protesta destinata a crescere?

Penso che chiunque sia attento all’ instabilità complessiva del cosiddetto “sistema-mondo”, molto marcata almeno dal 2008, non si stupisca di eventi come questo e sia consapevole che accadranno con sempre maggiore frequenza. Tuttavia, nello specifico, non mi aspettavo una mobilitazione così significativa in questa occasione e in questo momento. Il paragone con la mobilitazione per la guerra del Vietnam, spesso conosciuta come “ il 68”, è sensata. Anche il movimento a cui assistiamo oggi si oppone ad una guerra, una guerra fortemente sostenuta dagli Stati Uniti. Ci sono però anche altri precedenti, meno noti ma forse più calzanti come paragone. Quello più esatto concerne probabilmente le iniziative del 1985-1986 per spingere a un disinvestimento nei confronti del Sud Africa dove era in vigore l’apartheid. Quello sforzo è stato vittorioso, anche perché è riuscito a superare quella che rimane una barriera di tutti i movimenti studenteschi: la fine dell’anno scolastico. È proseguita su più anni accademici, continuando durante le vacanze estive o ricominciando in autunno. Questa è una lezione molto utile per l’attuale ondata di mobilitazioni.

Le università hanno risposto diversamente. Alcuni hanno cercato un dialogo costruttivo con gli studenti, altri hanno chiesto l’intervento della polizia, cosa davvero insolita e strana per un’università. Perché questo uso diffuso della repressione?

È piuttosto difficile rispondere. Negli Stati Uniti l’intervento della polizia nei campus non è così raro come lo è invece in altre parti del mondo; il mio campus è ad esempio famoso per la violenza con cui la polizia ha represso proteste politiche. Tuttavia, ritengo che un dirigente saggio, in questo momento, dovrebbe considerare la “tolleranza repressiva” come la risposta più razionale. È probabile che una repressione violenta provochi ulteriore resistenza, proprio come l’attacco genocida di Israele inevitabilmente favorirà la nascita di nuove generazioni di gruppi militanti più o meno simili a Hamas. Eppure raramente la strategia della tolleranza repressiva viene scelta. La violenza sembra essere la norma, su una scala massiccia e brutale, anche se rapportata al contesto statunitense. E ciò accade nonostante l’attuale protesta sia molto meno dirompente o conflittuale rispetto a quelle degli anni Sessanta, o Ottanta, e persino dell’ondata di mobilitazioni anti-austerità del 2009. Stiamo quindi assistendo a una risposta che potrei definire irrazionalmente violenta. In quanto tale è difficile da spiegare razionalmente.

Suppongo che dipenda dalla misura in cui preside e rettori sono stati spaventati con la prospettiva di perdere il loro posto se non procedono con una repressione visibile di ogni sentimento filo-palestinese. Questa paura è stata inculcata in parte attraverso le udienze del Congresso in cui i dirigenti universitari sono stati convocati per rispondere all’accusa di essere troppo tolleranti nei confronti di un presunto ’”antisemitismo”. E, in alcuni casi, spesso nel caso di università private, attraverso le pressioni di alcuni grandi donatori, capaci di dettare l’agenda.

Tuttavia, penso che rimanga una questione importante. Potrebbe essere giusto collegare la repressione a cui assistiamo all’intensificazione delle attività di polizia come ad un’ampia trasformazione sociale, non solo nei campus, in atto da 40 anni. O forse, dico in modo un po’ provocatorio, Minouche Shafik, la preside Columbia University, sta davvero cercando di allevare una nuova generazione di Weather Underground (organizzazione marxista di estrema sinistra, ndr).

Una delle accuse mosse ai manifestanti è che incarnano un sentimento di antisemitismo. Hai qualche timore a riguardo? Oppure è solo un modo per screditare una protesta riguardante le azioni militari di uno stato contro una popolazione?

L’antisemitismo è un fenomeno reale e l’ho sperimentato di persone. Non è quindi un tema che voglio escludere, circola in tutta la società. Questa rivolta studentesca fa parte della società, quindi include anche una dose di antisemitismo, proprio come la società stessa. Non credo però che le mobilitazioni studentesche siano più antisemite di quanto non lo sia la società in generale e molti accampamenti sono, in generale, molto attenti su questo argomento. Ovviamente non è antisemita opporsi a qualunque genocidio; anzi, penso che tale opposizione sia un obbligo del popolo ebraico. Ci sono – anche questo è ovvio – moltissimi ebrei che insultano l’ideologia fascista del sionismo e hanno preso parte alle proteste. Ignorare questo fatto, rifiutarsi di prendere sul serio la realtà degli ebrei che si oppongono al genocidio sionista, è di per sé profondamente antisemita.

E, cosa ancora più ovvia: negli ultimi 7 mesi, la violenza da parte della polizia e dei civili, contro palestinesi, musulmani, arabi e coloro che sono solidali con loro, supera di gran lunga qualsiasi violenza contro i sionisti, o contro gli ebrei, indipendentemente dalle loro convinzioni politiche. Non è nemmeno paragonabile. Questo è un fatto semplice, misurabile, inevitabile ed è vero tanto in Palestina quanto negli Stati Uniti.

La vicenda universitaria mette in discussione anche il ruolo dei donatori privati. Abbiamo visto il finanziere ebreo Bill Ackman orchestrare una campagna contro la preside di Harvard Claudine Gay costringendola infine alle dimissioni. Che potere hanno questi soggetti sulle università? Pensi che sia un sistema da correggere?

Come ho già detto, i donatori privati svolgono un ruolo più importante nelle università private. Le università pubbliche come la mia, l’Università della California, sono meno esposte all’influenza di questi soggetti. Una qualche influenza però c’è anche in questi casi perché i finanziamenti pubblici all’istruzione sono diminuiti negli ultimi 50 anni. Ovviamente, i donatori non dovrebbero svolgere alcun ruolo, poiché non dovrebbe esserci bisogno di donatori. Bill Ackman dovrebbe essere completamente escluso da questo ruolo, così come tutti i clown del genere, e l’istruzione dovrebbe essere finanziata interamente. Personalmente, se fossi certo che la mia comunità potesse fornire a me e a tutti gli altri cibo, bevande e riparo, insegnerei all’università gratuitamente.

Infine, pensa che queste proteste avranno qualche impatto sulle elezioni presidenziali?

Donald Trump è impresentabile. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno avuto solo un precedente presidente così accondiscendente verso un genocidio come lo è oggi Joe Biden; cioè Andrew Jackson, all’inizio del XIX secolo, con la sua sete di sangue per l’eliminazione dei popoli nativi. Forse questo sarà un momento in cui le persone si renderanno conto che non basta cambiare presidente. Prima o poi bisognerà sostituirli, è ora di “alzarsi dal letto” e agire direttamente per dare un indirizzo diverso alle cose. Meglio farlo adesso che poi.

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