Il 16,5% delle donne occupate, in Italia, è costretto a lavorare part time anche se vorrebbe un impiego a tempo pieno (e di conseguenza uno stipendio più alto). E in totale oltre 2 milioni di lavoratrici e lavoratori sono a tempo parziale per assenza di altre opzioni. Una diffusione che si spiega più con la volontà delle imprese di ridurre il costo del lavoro che con quella degli individui di armonizzare vita e lavoro: quello che avrebbe dovuto essere uno strumento di conciliazione si è insomma trasformato in una costrizione che inchioda soprattutto la forza lavoro femminile a occupazioni precarie, fragili e insoddisfacenti. È quello che emerge da un report del Forum Disuguaglianze e Diversità – elaborato da un gruppo di cui fanno parte anche ricercatori Inapp e Istat e la senatrice Pd Susanna Camusso – presentato lunedì al Senato, secondo cui in otto imprese su dieci l’incidenza delle donne in part-time sul totale dei dipendenti è oltre il 50%. Non solo: il 12% delle imprese usa il part-time in modo strutturale (oltre il 70% dei dipendenti). Dati che accendono una luce diversa anche sui buoni risultati del mercato del lavoro. “Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà“, commentano Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum. “In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione rischia di diventare uno strumento di ulteriore precarizzazione“.

Il 56,2% dei 4,2 milioni di lavoratrici e lavoratori part-time rilevati dall’Istat nel 2022 non ha scelto quella forma contrattuale ma l’ha accettata o subìta per necessità o per assenza di altre possibilità: si trova quindi in quello che viene definito part-time involontario. Le più colpite sono le donne: una occupata su sei è in quella condizione, mentre tra gli uomini la quota si ferma al 5,6%. Tra quelle nella fascia 15-34 anni la quota sale al 21%, contro il 14% della fascia over 55. In generale, a subire il tempo parziale sono le aree e le categorie più deboli: la diffusione è maggiore al Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone impiegate in professioni non qualificate, oltre che tra quelle con impiego a tempo determinato. E ovviamente il part-time involontario ha effetti retributivi molto significativi su chi lavora, che per il 39% vive in famiglie senza altro reddito, e nel caso svolga mansioni poco qualificate guadagnava (nel 2019) stipendi tra i 580 e 760 euro al mese.

“L’Italia vive un paradosso“, si legge nel rapporto. “Il lavoro a orario ridotto è una delle strade a cui in molte parti del mondo si guarda per consentire che la riduzione dei tempi di lavoro, anziché provocare disoccupazione, si trasformi per tutti, indipendentemente dal genere, in un riequilibrio fra tempi di vita e tempi di lavoro. Invece in Italia molto spesso è l’esito involontario di una marginalizzazione del lavoro che colpisce soprattutto le donne. La crescita che registriamo in Italia è anomala rispetto ad altri Paesi europei: tra il 2004 e il 2018 la quota di part-time involontario calcolata rispetto al part-time totale è quasi raddoppiata, passando dal 36,2% del 2004 al 64,4% del 2018“. Un paradosso confermato dai dati Eurostat: la quota di part time nel 2022 ha visto l’Italia in posizione analoga alla media europea (18,2% la prima, 18,5% la seconda), ma il part-time involontario riguarda nella Penisola più di un lavoratore su due tra quelli impiegati con questa forma contrattuale (56,2%) mentre la media europea si ferma a meno di un quarto (19,7%).

Stando alla V indagine Inapp “Qualità del Lavoro nella sua componente relativa alle unità locali”, condotta nel 2021, il 12% delle imprese fa un uso strutturale del part-time cioè ha oltre due terzi (70%) dei dipendenti inquadrati a regime orario ridotto. Si tratta di imprese con bassa propensione all’utilizzo di strumenti di flessibilità a supporto dei lavoratori e delle lavoratrici e all’introduzione di azioni per favorire il lavoro agile, probabilità inferiore di svolgere attività formative per chi lavora e una bassa responsabilità verso la conciliazione lavoro-vita privata. Colpisce inoltre la bassissima probabilità che in quelle imprese siano presenti rappresentanze sindacali (Rsa-Rsu). Nel settore della grande distribuzione e in quello dell’alloggio e ristorazione la concentrazione di unità locali che ricorrono in via strutturale al part-time è nettamente maggiore se comparata alla distribuzione complessiva.

Il fenomeno, spiega il report, si può correlare agli interventi normativi che hanno favorito la flessibilizzazione del lavoro. Tra questi il Jobs Act: le clausole elastiche introdotte a corredo del part-time, come il lavoro supplementare e il lavoro straordinario, permettono di aumentare e diminuire l’orario di lavoro del contratto part-time trasformandolo di fatto in full time all’occorrenza in presenza di picchi di lavoro. Sono tre le possibili aree di intervento individuate dal gruppo di lavoro. Innanzitutto la contrattazione: associare il part-time al tempo indeterminato, migliorare gli strumenti per la tutela contrattuale, prevedere che i contributi previdenziali di chi lavora part-time siano più costosi, costruire una gradualità nella quota progressiva del costo contributivo a carico del datore di lavoro. Poi disincentivi alle forme involontarie di part-time: inserire un sistema di denuncia per il lavoratore o la lavoratrice, costruire una politica di incentivazione per la trasformazione da contratto part-time a contratto full time. Infine un aumento dei controlli: aderire alla raccomandazione europea che prevede l’aumento degli ispettori del 20% monitorando le clausole concordate nella contrattazione, i contributi annui sufficienti a raggiungere la soglia, le ore effettivamente lavorate coerenti con quelle previste nel contratto.

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