Joe Biden ha deciso di prendere il primo provvedimento concreto nei confronti di Israele, dopo 7 mesi di guerra a Gaza e 35mila morti. Secondo quanto scrive Axios, che cita due funzionari israeliani, per la prima volta dal 7 ottobre il presidente americano ha bloccato l’invio di munizioni allo ‘Stato ebraico‘ per non alimentare il massacro in corso nella Striscia. Una scelta presa una settimana fa e che diventa pubblica mentre il possibile accordo per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas rischia nuovamente di fallire. Il punto di scontro rimane lo stesso: il ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia. Per Tel Aviv è un’opzione impraticabile, per il partito armato palestinese l’unica chance di sedersi a un tavolo. La conseguenza è che le Forze di Difesa Israeliane (Idf) si preparano a un’invasione di Rafah, l’ultima città all’estremo sud della Striscia di Gaza. E la delegazione di Hamas lascia Il Cairo, diretta a Doha, senza un accordo in mano e con la promessa di avviare un nuovo round di colloqui martedì.

LA MOSSA DI BIDEN – Quella del capo dell’amministrazione americana è una mossa che prima o poi doveva arrivare, anche in vista delle elezioni di novembre. La situazione esplosiva nelle università statunitensi, dove studenti pro-Palestina continuano a portare avanti manifestazioni nei campus degli atenei e occupazioni represse con la forza dalla polizia Usa, ha certamente accelerato i tempi della decisione del capo dello Stato. Da una parte il candidato democratico deve rispondere alle pressioni della comunità ebraica americana, tradizionalmente sostenitrice dei Dem, spaccata al suo interno tra chi pretende pieno sostegno a Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e chi, per differenti motivi, chiede di sospendere gli aiuti al governo estremista di Benjamin Netanyahu. Dall’altra, appunto, ci sono la comunità musulmana e i manifestanti sempre più numerosi nelle strade e, soprattutto, nei campus statunitensi. A questi si aggiunge una parte del Partito Democratico, quella che fa capo all’ala vicina all’ex candidato Bernie Sanders e alla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che da mesi ha iniziato un’attività di pressione sulla Casa Bianca arrivando a minacciare il boicottaggio al voto.

Così, la settimana scorsa, stando almeno a quello che riporta Axios, è arrivata la decisione. A febbraio la Casa Bianca chiese a Israele di fornire garanzie che le armi Usa fossero utilizzate dall’esercito israeliano a Gaza in conformità col diritto internazionale, con Tel Aviv che a marzo aveva fornito una lettera di assicurazioni firmata. Evidentemente, il contenuto della missiva non ha convinto l’amministrazione.

IL CESSATE IL FUOCO SI ALLONTANA – Intanto, il protrarsi delle contrattazioni e le posizioni irremovibili di Israele e Hamas sulla presenza o meno dei militari dell’Idf nella Striscia in caso di tregua bloccano una possibile intesa. “L’incontro con il ministro egiziano dell’Intelligence è terminato – ha detto all’Afp un esponente del partito islamico palestinese – La delegazione di Hamas partirà per Doha per proseguire le consultazioni”. A conferma di come la tensione stia gradualmente salendo arrivano le parole del ministro della Difesa d’Israele, Yoav Gallant, secondo cui l’operazione a Rafah comincerà “molto presto”. Sull’iniziativa militare nella città meridionale della Striscia non ci sono dubbi, stando a quanto dichiarato in questi giorni da Israele che non ha alcuna intenzione di rinunciare a “sconfiggere Hamas”, ma un’intesa per un cessate il fuoco avrebbe almeno risparmiato agli abitanti della Striscia altre settimane di raid insistenti da parte dell’esercito israeliano. Anche dal Cairo, dove è in corso la seconda giornata di trattative con i mediatori di Egitto e Qatar, i rappresentanti di Hamas parlano di “mancanza di progressi” nelle trattative, anche perché il partito armato palestinese non ha intenzione di cercare un accordo “ad ogni costo”: “Una intesa deve mettere fine alla guerra e portare fuori da Gaza l’Idf. Israele ancora non si è impegnato”, spiegano. A conferma della posizione sono arrivate anche le dichiarazioni del leader Ismail Haniyeh: serve un “accordo globale che ponga fine all’aggressione, garantisca il ritiro dell’Idf e raggiunga una seria intesa sullo scambio di prigionieri. Che senso ha un accordo se il cessate il fuoco non è il suo primo risultato?”.

Intanto da Israele arrivano novità poco incoraggianti. Una riguarda l’afflusso di aiuti per la popolazione della Striscia che diventerà ancora più complicato dopo la decisione di Tel Aviv di chiudere il valico di Kerem Shalom dopo alcuni attacchi missilistici di Hamas nell’area. L’altra è legata invece alla decisione votata dal governo all’unanimità di chiudere le attività dell’emittente al-Jazeera in Israele, ordinando la confisca delle attrezzature. Un provvedimento che l’esecutivo può prendere per 45 giorni e che potrebbe essere il preludio proprio a un’azione militare a Rafah: in questo modo, molte delle immagini circolanti dalla Striscia, opera dei reporter di AJ, non sarebbero visibili in Israele.

La stasi nei colloqui è accompagnata inevitabilmente dallo scambio di responsabilità tra le parti. Mentre Hamas ritiene inaccettabile la volontà di Israele di entrare con i carri armati a Rafah indipendentemente dal raggiungimento di un’intesa, Benjamin Netanyahu sostiene che sia il partito armato a “impedire un accordo per il rilascio degli ostaggi. Israele era ed è tuttora pronto a concludere una tregua nella lotta per liberare i nostri rapiti”. Ma Hamas, ha aggiunto, “è rimasto trincerato nelle sue posizioni estreme, prima fra tutte la richiesta di ritirare tutte le nostre forze da Gaza. Israele non può accettarlo. Pertanto, Israele non accetterà le richieste di Hamas che significano la resa e continuerà a combattere finché tutti i suoi obiettivi non siano raggiunti”.

SI SCALDA IL FRONTE NORD. SCONTRI CON HEZBOLLAH – Anche sul fronte settentrionale, dove nei giorni scorsi sembrava imminente un accordo per il ritiro delle forze di Hezbollah, la tensione torna a salire. Il Partito di Dio sciita libanese ha lanciato “decine” di razzi nel nord di Israele dopo la morte di tre civili a seguito di un attacco israeliano nel sud del Libano. “Decine di razzi Katyusha e Falaq” sono stati lanciate contro Kiryat Shmona “in risposta all’orribile crimine commesso dal nemico israeliano a Meiss Ej Jabal“, che ha ucciso una coppia e il loro bambino, si legge nella nota del gruppo libanese. Come risposta, i caccia israeliani hanno colpito diversi siti di Hezbollah nel sud del Paese: gli obiettivi, comunica l’esercito, includono edifici e altre infrastrutture nelle città di Markaba, Taybe, Kafr Kila e Odaisseh.

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