Il 20 maggio sapremo chi si aggiudicherà il bando di gara pubblicato a marzo dal ministero dell’Interno per la gestione dei centri, due hotspot e un Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), che l’accordo con l’Albania vedrà nascere nel porto di Shengjin e nella località di Gjader. Per quella data, ha promesso il governo, l’attività sarà avviata, ma a quanto si sa i lavori per le strutture sono ancora lontani dal completamento. Quanto al modello che vogliamo esportare, la realtà è a dir poco preoccupante. Attraverso un lungo lavoro di accesso civico agli atti, il mensile Altreconomia e i legali dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) hanno analizzato gli appalti dietro agli attuali Cpr, e quanto emerge non lascia bene sperare, per i fondi pubblici visto che la gara albanese vale 151 milioni di euro, ma soprattutto per i diritti fondamentali delle persone che in quei centri verranno rinchiuse.

L’inchiesta pubblicata sull’ultimo numero di Altreconomia rivela che gli appalti milionari per la gestione dei Cpr italiani presentano protocolli per lo più inverosimili quando non palesemente falsi. A questo si aggiunge un controllo sporadico e insufficiente da parte delle prefetture che hanno affidato gli appalti. Sono state analizzate le offerte tecniche di cooperativa come la Ekene, che dal 2019 gestisce i Cpr di Macomer in Sardegna e di Gradisca d’Isonzo in Friuli-Venezia Giulia. Nell’offerta per Gradisca si promettevano attività come bricolage, pittura, e perfino videogiochi con tanto di interazione con la locale comunità dei gamer in eventi come la fiera dell’elettronica di Pordenone. Tutto smentito dalla sindaca Linda Tomasinsig, che conferma l’inesistenza di tali collaborazioni. Secondo l’inchiesta, Ekene avrebbe presentato protocolli con enti che risultano inesistenti o senza alcun contatto reale con la struttura. E c’è di peggio: a Macomer la prima ispezione prefettizia è arrivata solo tre anni dopo l’aggiudicazione del bando, mentre a Gradisca, dove negli ultimi quattro anni sono morte quattro persone, le ispezioni non hanno ancora “esiti definitivi” e l’ultima gara d’appalto è ancora aperta dopo due anni dal bando, intanto si rinnova l’incarico.

Allo stesso modo, la cooperativa La Mano di Francesco Ets di Favara, gestore del Cpr di Bari, riporta nel suo protocollo collaborazioni con enti distanti centinaia di chilometri e con protocolli firmati da entità non più attive o che negano qualsiasi contatto con la cooperativa e il Cpr. Stesso quadro a Trapani, dove i gestori hanno allegato protocolli con date incompatibili o con enti che negano ogni coinvolgimento. Un esempio è la Parrocchia Maria SS Ausiliatrice di Trapani, che avrebbe sottoscritto un accordo cinque mesi dopo il pensionamento del parroco che appare come firmatario. Sono solo alcuni dei casi emersi dal lavoro di Altreconomia e Asgi, e nonostante la ritrosia dei gestori che in molti casi non vogliono rendere disponibile la documentazione, negando così il pubblico interesse a conoscere contratti per cui vengono spesi i soldi dei cittadini. Si giustificano dicendo di ritenere che l’invio degli atti “possa ledere il know how aziendale“. Comportamento che costringe gli avvocati dell’Asgi a predisporre il ricorso al Tar per ottenerli, come già annunciato.

Tra i gestori che negano gli atti delle procedure d’appalto ci sono anche due dei tre selezionati dalla Prefettura di Roma per la gara sui centri albanesi, il cui esito sarà noto entro una ventina di giorni. Il Consorzio Hera per il Cpr di Brindisi, già analizzato nell’inchiesta a proposito di Trapani. E Officine Sociali, che gestisce la struttura di Palazzo San Gervasio. Oltre a questi c’è il colosso Medihospes che ha in gestione il Cas per richiedenti di Udine, l’ex caserma Cavarzerani da sempre sovraffollata rispetto ai posti disponibili. Nonostante le premesse, sono questi i tre enti selezionati dalla prefettura di Roma per trovare il vincitore del mega appalto albanese, che sarà affidato secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. I tre enti sono stati ad ora preferiti rispetto alla trentina che si è proposta, scelti per lo “svolgimento dell’attività con metodi e processi di qualità rispettosi dell’ambiente, della salute e della sicurezza attestati da organismi di certificazione o documentati dalle stazioni appaltanti…”, si legge nel bando di gara del ministero. Eppure, stando all’inchiesta, i casi di protocolli falsi non mancano, mentre insufficienti sono proprio i controlli di chi aveva concesso gli appalti.

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