C’è chi fugge vestito da donna, con vestaglia e parrucca, chi viene nascosto nel retro di un’auto, in un montacarichi o tra le macerie, chi si cala da una finestra con le gambe ingessate e chi sparisce travestito da medico, da operaio o da prete. Sono le storie di Malati di libertà (Mimesis), un volume che ricostruisce per la prima volta in maniera organica il ruolo della brigata volontaria del Niguarda a Milano, dove una rete di infermiere, suore e attivisti fece fuggire tra il 1943 e il 1945 dall’Ospedale Maggiore, salvandoli dalla morsa fascista, 44 prigionieri antifascisti. Allestito grazie a un sontuoso apparato di testimonianze e documenti d’archivio, il volume, uscito il 12 aprile, è stato firmato da un gruppo di storici e giornalisti – Daniele Pascucci, Riccardo Degregorio, Alessandro Schiavoni, Carlo Celentano – e dopo alcune presentazioni nelle biblioteche della città, verrà presentato il 25 aprile alla Casa della Memoria.

Nella rossa Niguarda, il quartiere periferico e popolare del nord del capoluogo, liberato in anticipo di un giorno rispetto al resto d’Italia, a partire dalla fine del ’43 vengono trasferiti nel neonato padiglione Ponti 1 i ricoverati dell’infermeria di San Vittore, distrutta dalle bombe. È in questa fase che una rete si attiva per far fuggire alcuni dissidenti politici. Nei venti mesi di occupazione tedesca vengono infatti ricoverati al nosocomio numerosi antifascisti, feriti o malati, ma anche ebrei e partigiani registrati sotto falso nome con la complicità del personale, che l’azione di Suor Giovanna Mosna, Maria Peron, Lelia Minghini e altri portò alla salvezza. Tra l’epica e il rocambolesco, le storie raccontate – talvolta da più punti di vista, grazie alle ricostruzioni dirette di testimoni e protagonisti – rivelano l’eroismo delle donne, perlopiù di estrazione popolare, nell’esperienza partigiana e nella storia della Liberazione milanese e italiana.

Dietro a tutte le fughe, infatti, ci sono proprio loro: dalle iniezioni di latte per far salire la febbre alle manomissioni sistematiche dei referti, le infermiere inventavano sistemi per posticipare le dimissioni dei pazienti fino all’attuazione della fuga, da loro architettata, che poi gestivano e coprivano in prima persona, testimoniando il falso con i questurini, e spesso distraendoli con alcuni espedienti. Come quando l’infermiera Enrica Berti provoca volutamente una discussione animata in corridoio con una collega, così da permettere nel caos e nella distrazione generale la fuga di Rino Pacchetti e Domenico Capri.

Questurini che – va detto – vengono ripetutamente ingannati da queste protagoniste dimenticate della Liberazione, vere e proprie partigiane del Niguarda: “Tutte le fughe erano pericolose e rocambolesche, ma la più emozionante fu quella della liberazione di due giovani, Bortoli (in realtà Bartoli, ndr) e Cerea, perché mentre si portavano via, io e una compagna si trova la polizia armata che veniva a cercarli. Veramente in quel momento mi rassegnai a morire, se solo gli veniva in mente di sollevare il lenzuolo… per nostra fortuna non erano molto intelligenti”, racconta l’infermiera Pinella Orlandini, detta Olga, una delle principali protagoniste dell’attività clandestina.

Tutte le infermiere coinvolte nel “comitato di liberazione”, capeggiato da Lelia Minghini dal ’44, che aveva preso il posto di leader dopo Maria Peron, si chiamavano per cognome ma talvolta, ad esempio al telefono, sfruttavano i soprannomi: Minghini diventava “Mimì”, Berti “Bebè”, Quattrosoldi “Quqù”, Topazi “Totò”. Ovviamente per ragioni di sicurezza: proprio come i loro fratelli, cugini e ‘compagni’ in montagna, si erano munite di un nome di battaglia. Tutte le evasioni dei detenuti politici dal maggio ’44 in poi sono state operate dalle infermiere con l’aiuto delle suore, che pur non vedendo molto di buon grado la presenza di questi fuggitivi di notte in Convitto, dove venivano nascosti talvolta, finivano per rassegnarsi pur di salvare loro la vita.

“Lelia, non ti sognare di portare via Tortorella, perché per andare in bagno è talmente lento che il questurino non lo segue nemmeno”. Inizia così la storia della fuga di Aldo Tortorella, partigiano e politico italiano, poi deputato al Parlamento dal 1972 per il PCI. Un inizio complicato, visto lo stato di salute del paziente, ma che non scoraggia Lelia: “Vedrò cosa si può fare”, risponde alla collega che la informa sulle condizioni delicate del ‘compagno’ Tortorella. Sono poi le le scale a ispirarle il piano di fuga: Minghini chiede alla superiora di essere trasferita per il turno di notte al reparto oculistica; l’infermiera Berti, sua complice, dice a Tortorella di andare in bagno – che si trovava vicino alle scale – fra l’una e le due di notte e di salire di corsa al quarto piano da Lelia, appena i questurini non controllano. Giunto al quarto piano deve dire la parola d’ordine: “Minghini”. Ma verso le due di notte Tortorella arriva trafelato da Lelia, che deve nasconderlo immediatamente: si è fatto scoprire.

Lelia nasconde il ragazzo nell’armadio dello studio del primario, torna a sedersi sulla sedia dietro il tavolino e viene raggiunta dai questurini, che le chiedono se abbia visto un delinquente scappare. Lelia nega, e specifica: “Io son qui seduta… se fosse passato qualcuno lo avrei visto, ma non è passato nessuno. Siete andati a vedere nel terrazzo?”. Dall’armadio Tortorella viene poi nascosto nel montacarichi in disuso della cucina, dove rimane fino alla mattina. Ma anche dal montacarichi è meglio che venga spostato, gira voce che qualcuno sappia dove si nasconde: e così esce vestito da donna, con indosso una vestaglia da ammalata rossa, le ciabatte di Lelia, una parrucca e una cuffietta, accompagnato a braccetto dall’infermiera.

Ma è solo l’inizio del piano. Passati alcuni giorni, sempre vestito da ammalata, viene portato al convitto diplomate e, attraverso i sotterranei, giunge al quarto piano, la camera segreta dell’organizzazione. Non può rimanere a lungo nemmeno lì però, l’ospedale ormai non è sicuro. Così, sempre travestito da donna, ma questa volta da infermiera e non da ammalata, il 18enne malconcio riesce a fuggire scavalcando il cancello del convitto diplomate, alto oltre due metri. Caricato sulla bicicletta da Lelia stessa, che pedala veloce portandolo via dall’istituto, gli viene trovato un nuovo rifugio in una villetta disabitata in viale Zara, dove si nasconde per alcuni giorni.

Molti anni dopo Tortorella cerca di mettersi in contatto con l’indimenticata salvatrice: “Cara compagna Menghini, solo ora, dopo più di 30 anni, ho potuto sapere, per la cortesia del compagno Brambilla, il tuo indirizzo. E posso così, finalmente, ringraziarti per quello che hai fatto per me in quella fuga dall’Ospedale di Niguarda. So benissimo che lo hai fatto per corrispondere al tuo dovere di combattente antifascista e di compagna, e non per questa o quella persona; ma ciò non significa che chi è stato da te aiutato e salvato non debba essere meno grato. Ho letto il tuo bel resoconto di quell’azione e ho così saputo, tra l’altro, cose anche per me ‘nuove’, perché cancellate dalla memoria”. Una memoria collettiva e personale allo stesso tempo, e ora pubblica.

Nella foto l’infermiera Lelia Minghini sulla Topolino della dr.ssa Gatti Casazza

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