Quarantotto anni di calcio.
“La gavetta e il destino. A Varese abitavo a cinquecento metri dallo stadio Ossola. Vedevo i campi di allenamento dalle finestre di casa”.

Giuseppe Marotta, detto Beppe, amministratore delegato dell’Inter dal 13 dicembre 2018, presidente dell’associazione direttori sportivi, consigliere federale, un curriculum in cui spiccano nove scudetti, otto supercoppe nazionali e sette coppe Italia. Sessantasette anni compiuti il 25 marzo, contratto con l’Inter valido fino al 2027.
E forse quel giorno andrò davvero in pensione. Quando arrivi a quota settanta, è giusto godersi la vita.

Non sarà facile staccare la spina.
Ho sempre cercato di non perdere contatto con la vita reale e per chi ricopre un incarico importante è fondamentale: gli amici, le mie passioni personali come le mostre di pittura, uno sguardo a quello che ci circonda.

Il primo ricordo?
Il 5-0 del Varese alla Juventus. Quel giorno facevo il raccattapalle.

Il primo idolo?
Pietro Anastasi, venuto dalla Sicilia, come mio padre. Anastasi era il simbolo del calcio meridionale e del riscatto.

Quarantotto anni da dirigente: i trascorsi da calciatore?
Centrocampista nella squadra del liceo: classico, mi piacevano le materie umanistiche. Ho giocato anche nelle giovanili del Varese, ma ho smesso perché ero modesto e ho preferito costruirmi una strada a livello dirigenziale. A diciannove anni diventai responsabile del settore giovanile del Varese.

Anno 1976: altro mondo, altra Italia, altro calcio.
Ho iniziato con la carta carbone e mi ritrovo ora a fare i conti con l’intelligenza artificiale. Non puoi contrastare il progresso, ma io considero sempre la componente umana la base del calcio. La cosa essenziale è non farsi travolgere dalla modernità.

Il VAR fa parte della modernità.
Io non sono contrario, ma è innegabile che abbia tolto qualcosa alla spontaneità. Non sai quasi mai se il gol segnato è valido o da annullare.

Le letture degli anni giovanili?
Mi piacevano le cronache di Brera, poi la penna di Osvaldo Soriano. Ma è cambiato anche il giornalismo, non solo quello sportivo.

Varese, Monza, Como, Ravenna, Venezia, Atalanta, Sampdoria, Juventus, Inter: una carriera in crescendo e tutta al Nord.
Ho ricoperto tutti i ruoli, tranne quello dell’allenatore. Venezia, Atalanta e Sampdoria sono state tappe fondamentali. Al Sud non ho mai lavorato semplicemente perché non c’è mai stata l’opportunità.

Otto anni alla Juve, poi l’Inter.
A Milano sto molto bene. E’ una città in continuo fermento, sempre in movimento, aperta alle novità.

Tranne la questione-stadio.
Lo stadio è il grande problema del calcio e lo specchio dei nostri limiti. Questioni come quelle di uno stadio dovrebbero essere trattate a livello nazionale e non locale. L’Inghilterra ha rigenerato il suo calcio grazie a un progetto nazionale. In Inghilterra hanno abbattuto il vecchio Wembley per costruire il nuovo: se è accaduto in una nazione ricca di tradizioni, perché certe cosa non possono verificarsi in Italia?

Mai pensato a lavorare in Inghilterra?
Mi sarebbe piaciuto, sarebbe stata una bella esperienza. Mi affascina il mondo del calcio nella sua globalità: squadre, strutture, ambiente.

Ha lavorato con almeno tre generazioni di allenatori: chi avrebbe voluto incontrare nel suo percorso?
Klopp. Il suo calcio e la sua personalità conquistano un dirigente. Guardando al passato, dico Alex Ferguson.

Il colpo di una carriera?
Pogba preso a parametro zero nel 2012 e rivenduto al Manchester United nel 2016 per centosette milioni.

Che cosa ha ispirato la stagione interista?
La sconfitta nella finale di Champions. Abbiamo capito, pur perdendo, che eravamo sulla strada giusta.

Secondo Ancelotti, la sconfitta è sofferenza.
Ha ragione. Per l’Inter il ko nella finale contro il Manchester City fu un momento di grande dolore, ma noi siamo ripartiti da lì. Le cito una frase di Nelson Mandela: non perdo mai, o vinco, o imparo.

Questo scudetto?
Un evento storico. La seconda stella. Il nostro modello è vincente e dobbiamo andare avanti su questa strada. Inzaghi ha dimostrato di essere bravo e un vero leader. Ora penseremo al futuro. Dovremo ripartire con grande umiltà.

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