Giulio “voleva rendersi indipendente e trovare un lavoro per valorizzare le sue capacità. Amava lo studio, cercava di coinvolgere tutti, era sempre rispettoso nei confronti degli altri”. A dirlo è Claudio Regeni, padre di Giulio il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016, sentito questa mattina in aula come testimone nel processo in corso davanti alla Prima Corte di Assise di Roma che vede imputati quattro 007 egiziani. Il padre, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, ha ripercorso l’infanzia di Giulio a Fiumicello, in provincia di Udine, i viaggi con la famiglia “abbiamo sempre viaggiato – ha ricordato Claudio Regeni mentre sono state mostrate in aula alcune foto di Giulio con la sua famiglia e i suoi amici – era una nostra passione, volevamo conoscere altre culture, lingue, usanze e così sono cresciuti i nostri figli”.
E poi gli studi prima in Italia e poi all’estero “Giulio era molto appassionato di materie umanistiche, soprattutto storia. Parlava bene l’inglese, l’arabo, lo spagnolo e il tedesco e stava studiando anche il francese. Ha lasciato Fiumicello per gli Stati Uniti a 17 anni. Amava studiare”, ha detto il padre. Dopo la sua morte “abbiamo dovuto chiudere i suoi conti. Aveva un conto in Italia del quale ero cointestatario – ha detto in aula Claudio Regeni – aperto quando era nel New Mexico. Al saldo c’erano 1481 euro. Poi aveva un conto corrente presso una banca inglese per le spese in Inghilterra. Su questo c’erano versamenti di Oxford Analytica dove aveva lavorato, qualche piccolo rimborso dall’università di Cambridge per il dottorato. Il saldo era di circa 6mila0 sterline”. Giulio, ha sottolineato il padre Claudio, “non è mai stato alle dipendenze di autorità italiane, inglesi e egiziane. Né ci ha mai collaborato”.

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