Un po’ in tutto il mondo, ghiacciai di ogni tipo e posizione si assottigliano pericolosamente (vedi https://www.theworldcounts.com/challenges/climate-change/global-warming/the-melting-ice-caps). A suscitare particolare preoccupazione sono i ghiacciai Thwaites e Pine Islands, situati nel così detto ventre molle della calotta glaciale dell’Antartide occidentale, nel mare di Amundsen. Sono due enormi distese di ghiaccio (la seconda costituisce all’incirca il 10% di questa calotta), ed entrambe condividono un aumento della velocità del flusso, soprattutto nella parte basale. Secondo uno studio dello scorso ottobre, la loro fusione continuerebbe ad accelerare per tutto il secolo anche se riducessimo drasticamente fin da ora le emissioni di Co2.

Sorvegliati speciali – Questi ghiacciai, spiega Shaun Fitzgerald, direttore del centro per il ripristino climatico all’università di Cambridge (che insieme ad altri atenei, come quello di Stanford, è coinvolta in questo progetto di geoingegneria climatica) “subiscono l’influsso dell’aria più calda, che fonde la superficie, ma sono anche erosi alla base dall’acqua marina, che è più calda”. Sono quindi ad alto rischio e, secondo gli scienziati, se fondessero potrebbero innalzare di 3 metri il livello del mare, con inevitabili conseguenze per le città costiere e devastanti costi economici e sociali. Così Fitzgerald e colleghi, tra cui John Moor, glaciologo all’università della Lapponia (Finlandia), hanno ideato il progetto Seabed Curtain (“della tenda sottomarina”), presentato alla Cop28 di Dubai.

Una barriera fantascientifica- Si tratterebbe di erigere una sorta di cortina lunga 100 km e ancorata al fondo marino, sul quale si eleverebbe di circa 200 metri; questa impedirebbe parzialmente l’afflusso di acqua più calda del normale e la conseguente fusione della base dei ghiacciai, che compromette la stabilità della massa soprastante. Non si tratterebbe di una membrana a tenuta stagna, ma di una serie di cortine di un materiale da stabilire – forse canapa o sisal – forse sostenute da aria pompata in un tubo. È tutto ancora nel campo delle ipotesi e, se tutto va bene, ci vorrà almeno un decennio prima di arrivare a un progetto concreto. Al momento la sperimentazione è giusto partita e, entro l’anno, dovrebbero cominciare i primi test sul fiume Cam, in Inghilterra.

Molti punti deboli – Per cominciare, il progetto è enormemente costoso: secondo i calcoli dei suoi autori e di altri scienziati ci potrebbero volere dai 40 agli 80 miliardi di dollari, più 1-2 miliardi di dollari all’anno per la manutenzione. Un enorme esborso per un progetto con molte incognite, come ben sanno gli ideatori stessi, che a priori non possono dire se funzionerà. Dubbi sul funzionamento li ha per esempio la prof. Twila Moon, glaciologa dell’Università del Colorado, secondo cui le cortine inciderebbero poco sul livello dei mari, che è influenzato da molti altri fattori, non solo locali. Se per esempio l’aria si riscaldasse ulteriormente, la superficie dei ghiacciai, che da parte sua non è protetta, fonderebbe. E che dire degli animali che vivono nel settore marino compreso tra la barriera e il ghiacciaio? L’oceanografo polare Lars Smedsrud dell’Università di Bergen (Norvegia) avverte che l’ecosistema marino potrebbe subire grosse conseguenze, perché si interromperebbe il passaggio di nutrienti tra l’oceano e il ghiacciaio.

Un approccio criticato – A essere criticato è anche l’approccio stesso della geoingegneria climatica, la disciplina che cerca di rimediare ai danni ambientali creati dall’uomo intervenendo direttamente sull’ambiente con varie tecniche. Sono interventi massicci e inediti, che possono avere conseguenze imprevedibili e in più, sottolineano i critici, si limitano a tamponare il problema. Si rischia di distogliere attenzione e risorse da azioni davvero incisive contro il cambiamento climatico. E intanto, si fa sempre più tardi.

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