Per Volodymyr Zelensky la città di Avdiivka era già persa da giorni. L’esercito russo l’aveva ormai accerchiata, così il presidente, a differenza di quanto fatto ad esempio nel corso della battaglia di Bakhmut, ha chiesto alla leadership militare di salvare la vita dei militari. Anche il generale di brigata Oleksandr Tarnavsky ha dichiarato di aver “mantenuto questa posizione finché ci ha permesso di scoraggiare e distruggere efficacemente il nemico”, ma adesso è arrivato il momento di lasciare la posizione per “preservare i militari e migliorare la situazione operativa”. Così i soldati ucraini hanno abbandonato questa cittadina da 32mila abitanti diventata la conquista (o perdita) più importante degli ultimi mesi in una guerra sempre più statica tra Russia e Ucraina.

Fino al 2021 Avdiivka era stata una cittadina con il territorio in gran parte occupato da aree agricole, impianti industriali e cumuli di terreno e minerali estratti dal suolo. Non era attraversata da nessun asse viario o ferroviario di importanza strategica. Degno di nota è il fatto che la distanza tra questo “villaggione” e le prime case di Donetsk, il capoluogo della regione occupato dai russi, è inferiore ai 10 chilometri: un margine così poco ampio, comunque, non fa la differenza con i droni e le artiglierie in uso a entrambe le parti.

Dal punto di vista militare, Avdiivka era diventata quello che si definisce un “saliente“, cioè a una parte del teatro di battaglia che si proietta in territorio nemico ed è circondato su due o tre lati. Questo fa sì che le truppe che lo occupano siano particolarmente vulnerabili: un saliente profondo corre il rischio di essere tagliato dal nemico formando una sacca in cui le truppe rimangono bloccate. Il saliente di Avdiivka in mano ucraina aveva una profondità di circa 9 chilometri e una larghezza che oscillava tra i 2 e i 3. La parte dell’oblast di Donetsk ancora sotto il controllo di Kiev si estende, oltre Avdiivka, per una profondità che oscilla tra i 50 e i 70 chilometri: una distanza infinita dopo un anno di avanzamenti di pochi metri o decine di metri al giorno. Esisteva una sola via di comunicazione che permetteva ai soldati di Zelensky di lasciare le aree fortificate senza abbandonare le armi e i veicoli. Era arrivato il momento di sfruttarla per non finire risucchiati dai russi.

L’atlante, insomma, offre un’immagine che – senza essere esperti di questioni militari – si riesce a capire bene: le battaglie che negli ultimi dieci anni si sono susseguite qui senza soluzione di continuità tra le truppe fedeli a Mosca e quelle ucraine e che hanno portato nella tomba quasi 50mila persone, tra civili e combattenti di entrambe le parti, hanno riguardato un fazzoletto di terra. Eppure, sia il Cremlino sia la Casa Bianca sia il presidente Zelensky si sono sbracciati per attribuire a questo scontro un valore simbolico che trascende quello che il piccolo centro ha dal punto di vista strategico. Il combattimento si è svolto solo per motivazioni non militari. La parte ucraina non ha voluto concedere all’avversario vantaggi politici, ne ha approfittato per farlo dissanguare e per dimostrare al mondo che senza i rifornimenti occidentali le forze di Kiev non hanno possibilità di andare all’offensiva. La parte russa, dopo che Bakhmut era stata conquistata da una compagnia di mercenari della Wagner, poi protagonista di un tentativo di colpo di Stato, aveva bisogno di annunciare la prima conquista di un territorio, una “gloria” che manca dai tempi di Severodonetsk e Lysichansk nel lontano giugno 2022.

Poco importa se la battaglia ha lasciato nei campi montagne di cadaveri e dove sorgevano le case e le chiese solo brandelli di muri. Ma non è ancora finita. Gli ucraini avevano all’interno del saliente un battaglione e tre brigate meccanizzate, un reggimento delle forze speciali della polizia e due battaglioni di fanteria: soprattutto, a darsi da fare è stata la 110ma brigata meccanizzata, che però non ne poteva più. All’esterno c’erano alcuni battaglioni d’assalto, altre brigate meccanizzate, le forze speciali dell’intelligence militare e i volontari russi inquadrati nelle forze di Kiev: tutte queste truppe possono essere impiegate, al massimo, nel preparare un’operazione di contrattacco.

Il dubbio se tenere a tutti i costi la cittadina rasa al suolo aveva, quindi, natura politica e non militare. Come già successo dopo la battaglia di Severodonetsk, anche qui la Russia non sembra avere molte chance di andare oltre: Mosca, infatti, non dispone di una quantità di carri armati moderni sufficiente a tentare un’offensiva per raggiungere i confini amministrativi dell’oblast e realisticamente non ne avrà ancora per alcuni anni. Sempre più spesso nei campi di battaglia i russi usano veicoli costruiti negli anni Settanta, Sessanta e persino Cinquanta, mancando di fatto la produzione. Insomma, caduta Avdiivka, almeno in questa regione le due parti potrebbero adottare una “soluzione coreana”, limitandosi a guardarsi con i droni e a lanciarsi pallottole a distanza.

Kiev si è quindi fatta i conti in tasca: nella recente intervista a ZDF lo stesso Syrsky ha spiegato che le forze ucraine adotteranno una disposizione difensiva allo scopo “di esaurire le forze nemiche e infliggere il massimo delle perdite, utilizzando le nostre fortificazioni, vantaggi tecnici, droni, guerra elettronica e mantenendo linee di difesa preparate”. Ha anche sottolineato che la pressione russa nel nord su Kupiansk ha valenza strategica, riguardando il controllo di un asse logisticamente importante: ecco, tutto questo non valeva per Avdiivka. Resta il dubbio di come la perdita di un “villaggione” impatterà sull’opinione pubblica occidentale: a seconda dei Paesi, passerà l’idea che non si è fatto abbastanza e che bisogna investire di più o che lo stallo è insuperabile e investire non serve a niente.

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