Luigi Baldan, mio padre, era un uomo semplice e giusto. Non era fascista, non era comunista. Ha vissuto l’esperienza dei campi di concentramento e di lavoro, dove ha combattuto quella che lui chiamava la sua ‘resistenza non armata’ contro il nazifascismo. Ha rischiato la vita per aiutare e sfamare un gruppo di giovani prigioniere ebree. Tornato in Italia, dopo molti anni ha deciso di raccontare nelle scuole l’orrore che aveva visto e la sua esperienza fuori dal comune, perché non si dimenticasse e perché non si ripeta più una tragedia come quella”. Sandro Baldan, architetto e dipendente della Regione Veneto, è oggi il depositario di una memoria che ha suscitato emozione e studi storici in Germania, in Francia, in Israele. Perché la vicenda di Luigi Baldan, residente a Mirano e morto nel 2017 all’età di 100 anni, è davvero incredibile ed esemplare.

Motorista della Marina Militare Italiana, imbarcato sulla nave Titano, era a Sebenico, in Dalmazia, quando l’8 settembre 1943 fu firmato l’armistizio. Aveva 26 anni. Rifiutò di andare con la Repubblica di Salò o con i tedeschi. Cercò di fuggire in motoscafo dal porto, per raggiungere l’Italia, ma venne fermato a colpi di mitra. Così, come altri 600mila soldati italiani, finì prigioniero in Germania, dove venne internato prima a Bad Orb, poi a Francoforte sul Meno, quindi a Sackisch-Bad Kudowa in Polonia. Lavorava nelle fabbriche belliche, guardato a vista dai nazisti. Nonostante i controlli, sabotava le macchine e la produzione. “Se lo avessero scoperto, lo avrebbero impiccato” ricorda il figlio. In Polonia realizzò una rete clandestina, assieme a russi e cecoslovacchi. Uno di loro aveva nascosto una radio e sentiva Radio Londra e diffuse le notizie dello sbarco di Normandia, dell’attentato a Hitler e dell’imminente arrivo dell’esercito russo.

Il nome di Luigi Baldan è però legato soprattutto allo straordinario aiuto che a Sackisch-Bad Kudowa diede a 400 ragazze ebree che si trovavano nelle baracche al di là del filo spinato e che lavoravano anche in fabbrica. “Eravamo prigionieri noi italiani e un gruppo di russi, poi c’erano queste ragazze ebree. Portavano un lungo camice a righe verticali, con una stella e una scritta Jude sul petto. Le ragazze avevano tutte i capelli tagliati a zero. L’età era compresa tra i 15 e i vent’anni circa, ma la maggior parte erano giovanissime”. Così ha scritto in un libro di memorie (Lotta per sopravvivere). “Durante le 12 ore di turno lavorativo queste ragazze ebree avevano un biglietto per andare al gabinetto due volte. Qualcuna, esausta per la mancanza di cibo e dal duro lavoro, si soffermava al bagno per riposarsi un po’. Allora le guardiane tedesche le sgridavano o le picchiavano. Le bestie erano meglio di noi. Quando avevo qualcosa in più di cibo lo portavo sempre a quelle povere ragazze ebree che non potevano neanche muoversi e non so come facessero a rimanere in piedi stremate dal lavoro. Ma ogni volta che gettavo loro di nascosto il cibo o altro, temevo che i tedeschi si accorgessero, perché loro saltavano in mucchio tutte insieme, come i colombi quando gli danno il grano da mangiare”.

Nonostante il pericolo, Baldan ha continuato a rischiare. A volte affrontando direttamente gli aguzzini. “Un mattino in fabbrica sentimmo un gran colpo. Il carrello di un tornio aveva sbattuto sul mandrino. L’operatrice era una ragazza ebrea. Il tedesco di guardia le andò vicino. Si mise a gridare poi mi chiamò. Subito dopo l’ingegnere si avvicinò. La ragazza ebrea si mise a tremare. L’ingegnere disse delle parole da cui capii solo la parola ‘sabotaggio’”. A quel punto Baldan intervenne. “Herr ingenieur, nein sabotage! Non vedi che non mangiano e non dormono? Non è stato un sabotaggio”. Spiegò che era un errore dovuto alla stanchezza. “Il tedesco aveva la pistola in mano puntata verso la ragazza ebrea. Lo guardai negli occhi come per dire ‘Non è degno di te’. Voleva dare un esempio alle prigioniere. Con quello non si scherzava. Ebbi paura. Per fortuna, convinto dalle mie parole, abbassò l’arma e se ne andò. Vidi lo sguardo della ragazza che piangeva. Mi guardò intensamente, come per ringraziarmi di averle salvato la vita”.

Tanti momenti di terrore, gesti di generosità disinteressata e gratuita, si consumarono in quell’anno e mezzo che Luigi Baldan trascorse in Polonia, prima di fuggire dal campo, quando mancavano pochi giorni all’arrivo dei russi. “Abbiamo rintracciato una signora che vive ad Haifa in Israele, e oggi ha 99 anni: Edith Borosh fu testimone di quel gesto di eroismo” spiega Sandro Baldan. La donna ricorda: “Fu Luigi a salvare la mia compagna in fabbrica. Poi ci faceva trovare del pane e del cibo nascosto nelle macchine. Ci portava stracci con cui coprirci“. Ginette Mabille, insegnante francese e figlia di una prigioniera del campo, nel 2015 ha tradotto le memorie di Luigi Baldan. “Riuscì a parlare per telefono con mio padre prima che morisse” aggiunge il figlio Sandro. “Si è creata una rete della memoria con i figli di quelle ragazze. Ma non solo. In Germania gli storici sono interessati a ricostruire che cosa accadde nei campi di lavoro, mi chiedono documenti e registrazioni della testimonianza che mio padre ha portato nelle scuole. Li porterò tra qualche mese, alle manifestazioni che organizzerà l’Anpi in terra tedesca”.

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