Oggi Fontanafredda è un comune di quasi 13mila abitanti, adiacente alla città di Pordenone e posto a pochi chilometri dal confine con il Veneto. Nel 1911 invece è poco più di un paese con più chiese che abitazioni. Ed è in questo contesto che il 14 dicembre nasce Mario Pagotto, detto Rino, ultimo dei figli di una famiglia contadina, una delle tantissime che abitano la penisola e soprattutto quella parte d’Italia. Per lui il lavoro nei campi arriva prestissimo, ma con altrettanta rapidità si fanno notare anche un fisico gracile e una insofferenza per l’insegnamento scolastico. Il padre così decide di avviarlo come apprendista nella bottega di un calzolaio. La predisposizione di Mario però appare subito un’altra, lo sport, ma non il calcio. Almeno, non inizialmente. Decide di indossare i guanti da pugilato e pedalare su una bicicletta. Due scelte non casuali per un ragazzo friulano nell’Italia degli anni Venti. Come tutti infatti anche Mario è attratto dalle imprese dei conterranei Primo Carnera e Ottavio Bottecchia. Un diretto sul naso e una rovinosa caduta lo convincono però ad appendere i guantoni e la bici al chiodo. Il suo prossimo capitolo sportivo sarà il calcio.

Pagotto è ormai un ragazzo, ma apprende velocemente, colma le lacune tecniche e diventa un terzino affidabile ed ordinato. Tanto da attirare l’interesse del Pordenone, militante in Prima Divisione, la terza serie dell’epoca. È l’estate del 1932 quando Mario si veste di neroverde. Ha 21 anni ed ha appena concluso il servizio di leva con gli Alpini. La sua crescita prosegue stagione dopo stagione, fino alla chiamata del Bologna. I rossoblù degli anni Trenta non sono una squadra qualsiasi, ma quella che “tremare il mondo fa”. Insomma, rappresentano una delle massime realtà del panorama calcistico italiano ed europeo. In Emilia Pagotto arriva a 25 anni ma non perde tempo, e in breve diventa la colonna portante difensiva insieme a Secondo Ricci e Dino Fiorini. È anche grazie a lui se in sei anni, dal 1936 e il 1943 il Bologna vince tre scudetti e un Trofeo Internazionale dell’Expo di Parigi, battendo per 4 a 1 il Chelsea.

La dichiarazione di guerra di Benito Mussolini a Francia e Inghilterra del 10 giugno 1940 è uno spartiacque che spezza in due la carriera di Mario. E poco importa se c’è ancora tempo per il titolo nella stagione 1940/41. Ormai dall’entusiasmo, le braccia alzate, i palloni in rete, si è passati alle bombe, ai lutti, alla miseria. Ben presto in Italia giocare a calcio diventa impossibile, mentre al fronte cresce la necessità di nuovi soldati. E così nell’ottobre del 1942 Pagotto è richiamato dagli Alpini, tra cui può godere di un trattamento privilegiato, essendo un atleta professionista. Dopo l’8 settembre però tutto cambia radicalmente. Pagotto viene arrestato dai nazisti per essere tradotto prigioniero nel campo di prigionia di Hohenstein, nell’odierna Polonia. Qui è assegnato con la targhetta “DA 8659-I”. Da lì si passa al campo di Bialystok, sempre in territorio polacco. I lavori forzati, il freddo e la fame gli fanno perdere circa 30 chili, ma non la voglia di lottare per sopravvivere.

Nel frattempo però l’avanzata dell’Armata Rossa costringe i nazisti a sgomberare il campo. Per Mario si accende la speranza di tornare a Bologna, invece inizia una nuova odissea attraverso l’Europa, che riporta il gruppo nuovamente a Hohenstein, diventato ora un centro di accoglienza e smistamento gestito dai sovietici. Un nuovo viaggio lo porta a Odessa e poi ancora a Cernauti, dove ha occasione di incontrare altri italiani con la passione per il calcio. E qui forma una squadra che diventa famosa con l’appellativo di “Quelli di Cernauti”. La formazione è composta da: Colombo, Pagotto, Olivetti, Sassone, Trombetta, Canova, Alocco, Napolitano, Carneggi, Vasini, Tagliabue. Da Cernauti il gruppo di italiani viene portato a Sluzk, dove Rino organizza un torneo tra le diverse squadre del campo. Il risultato è diciotto partite di fila vinte. A rimanere impresso è in particolare il match contro i militari dell’Armata Rossa, sconfitti con un perentorio 6 a 2. Il calcio ormai non è più soltanto una passione, ma è diventato un mezzo di riscatto, un modo per tornare a vivere e superare gli orrori della guerra e della prigionia.

Intanto le settimane passano e i campi iniziano lentamente a chiudere. Le ostilità ormai sono finite in tutta Europa e per Mario è tempo di tornare davvero a casa. Monaco di Baviera, Innsbruck, Brennero, Bologna. Quando rientra in Emilia viene accolto dagli scheletri dei palazzi e la faccia incredula della moglie Giuseppina, la stessa che si manifesta anche sui volti dei tifosi rossoblù quando lo vedono scendere in campo nel match contro l’Atalanta del 21 ottobre 1945. Mario Pagotto è tornato nel suo Bologna, con cui gioca fino al 1948, seppur come rimpiazzo e senza grandi risultati. Ormai non è più il giocatore di un tempo, e molte cose sono cambiate. Solo una cosa è rimasta la stessa di prima della guerra: il suo rapporto con la città. Un feeling speciale che rimarrà tale fino alla fine, arrivata nell’agosto del 1992, all’età di 81 anni.

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