Tentata induzione indebita e falso ideologico. Con questa accusa l’ex procuratore capo di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo è stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento delle spese processuali, dalla sezione penale del Tribunale di Potenza, presieduta da Rosario Baglioni. Per un’altra serie di ipotesi accusatorie relative al reato di falso ideologico, invece, Capristo è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. È questa la sentenza che ha definito il primo grado del processo a carico del magistrato coinvolto in una vicenda che riguardava un suo presunto tentativo di induzione verso la pm Silvia Curione per agevolare tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, attraverso il suo autista (poi uscito dal processo con patteggiamento e condanna a due anni). I fratelli Mancazzo sono stati condannati ciascuno a due anni di reclusione (pena sospesa) e al pagamento delle spese processuali.

L’indagine era partita dalla denuncia di Curione: Antonino Di Maio, il procuratore che era subentrato a Capristo (nel frattempo trasferito a Taranto) e che in questa vicenda è stato indagato (e poi archiviato) per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale, aveva chiesto l’archiviazione, rigettata dal gip di Trani. Il fascicolo venne avocato dall’allora pg di Bari, Annamaria Tosto, e trasferito a Potenza. Il pubblico ministero, Anna Gloria Piccininni, e il procuratore capo, Francesco Curcio, lo scorso 18 ottobre avevano chiesto al Tribunale la condanna di Capristo a sei anni di reclusione. Oggi la sentenza. “Sarà riformata – ha commentato il legale di Capistro, l’avvocato Angela Pignatari – perché siamo convinti che sarà data una lettura diversa degli atti oggetto del processo. Capristo è persona onesta e per bene e che non ha commesso i fatti per come sono stati inquadrati dal tribunale. Faremo appello“.

La vicenda è iniziata nel 2018, quando Capristo e gli altri 4 indagati (all’epoca finirono tutti ai domiciliari) secondo l’accusa cercarono di convincere il magistrato della Procura di Trani a chiudere le indagini per usura e avviare il processo contro un imprenditore, senza che ce ne fossero i presupposti e solo perché gli interessati avevano un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Motivo per cui avevano già provveduto a denunciare il malcapitato imprenditore. Il pm Silvia Curione, però, si è ribellata. Ha detto no a quell’invito – arrivato per bocca di un poliziotto inviato dal procuratore capo di Taranto – e ha svelato una trappola in cui sarebbe dovuto cadere un innocente calunniato. Nell’ordina di custodia cautelare che nel 2018 dispose i domiciliari per gli indagati venne riportata integralmente la relazione riservata redatta dal sostituto procuratore Silvia Curione e inviata al suo capo ufficio, Di Maio, per raccontargli dell’accaduto. Ovvero il presunto reato di usura mai commesso ai danni dei fratelli Mancazzo che avevano presentato “istanza di sospensione di due procedure esecutive immobiliari pendenti dinanzi al Tribunale di Bari“.

Capristo cercò di convincere Curione a “perseguire ingiustamente” l’imprenditore denunciato dai Mancazzo facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura jonica e tenuto in grande considerazione fino a un certo momento. Il magistrato, sentito a verbale, ha dichiarato che a un certo punto Capristo – che pur lo aveva applicato alla Dda di Lecce – cominciò a ignorarlo. Marazia, siamo e gennaio 2018, aveva segnalato una fuga di notizie sull’indagine relativa alla Cementir di Taranto, Enel di Brindisi e Ilva. Ma non solo: il giorno dopo l’audizione di Marazia a Potenza, di cui nessuno sapeva nulla e relativa all’indagine, Capristo non solo non lo salutò ma girò il volto dall’altra parte. Del resto come testimoniano i tabulati fino a un certo punto Capristo sentiva spesso il suo sostituto che da un certo punto in poi cominciò a vivere “un incubo“.

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