Mentre Israele mostra i muscoli in Siria, il governo Netanyahu si indebolisce di giorno in giorno, con il premier sempre più in contrasto con le Nazioni Unite e gli Usa. E ora tornano anche le proteste interne: sabato pomeriggio migliaia di persone hanno affollato il centro di Tel Aviv chiedendo le dimissioni del premier, lo scioglimento della Knesset e nuove elezioni. “Deve andare a casa”, è uno degli slogan rivolto a Bibi e più recitati nella protesta. “Restituisci il mandato. Chi divide non unirà, chi distrugge non costruirà, chi distrugge non creerà”, ha detto, citato dai media, Yonatan Shamriz, il cui fratello Alon, ostaggio a Gaza, è stato per errore ucciso dall’esercito nella Striscia. Una manifestazione con centinaia di persone è in corso di svolgimento anche a Gerusalemme dove alcune donne hanno esposto cartelloni dove si afferma che “non sacrificheremo i nostri figli nella guerra per salvare la destra”. La manifestazione è stata preceduta da un’altra svoltasi da venerdì sera sotto la casa di Netanyahu a Cesarea dalle famiglie dei rapiti.

Le proteste tornano nel giorno in cui l’esercito israeliano ha deciso di colpire anche in Siria, bombardando il quartiere Mezzeh, nella parte occidentale della capitale siriana Damasco: secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le vittime dell’attacco sarebbero almeno 10. Due dei morti, riferisce Haaretz, sarebbero alti ufficiali dei Pasdaran, consiglieri di alto grado dei Guardiani della rivoluzione e ora Teheran minaccia ritorsioni dirette nei confronti di Israele. La pesante attività militare fa da contraltare a una crisi interna sempre più evidente. La manifestazione di sabato è solo l’ultimo tassello.

Venerdì sera il premier ha avuto una telefonata con il presidente americano Joe Biden: secondo quanto riferito dalla Cnn, Netanyahu avrebbe fatto una parziale marcia indietro sul suo “no” a uno Stato di Palestina. Ma sono bastate poche ore perché questa posizione venisse smentita direttamente dall’ufficio di Netanyahu ribadendo i concetti espressi giovedì: “Israele ha bisogno del controllo della sicurezza su tutto il territorio a ovest del Giordano”. “Questo si scontra con l’idea di una sovranità”, aveva aggiunto, riferendosi ad un possibile stato palestinese. Una posizione insostenibile per il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: “Il rifiuto di accettare la soluzione dei due Stati per israeliani e palestinesi e la negazione del diritto ad uno Stato per il popolo palestinese è inaccettabile”. Per Guterres – che sabato ha parlato alla cerimonia di chiusura del 19esimo vertice del Movimento dei Non allineati a Kampala, in Uganda – “ciò prolungherebbe indefinitamente il conflitto che è diventato una grave minaccia per la pace e la sicurezza globale, esacerberebbe la polarizzazione e incoraggerebbe gli estremisti ovunque. Il diritto dei palestinesi a costruire un proprio Stato deve essere riconosciuto da tutti”.

Le proteste interne arrivano dopo che i media hanno riferito la decisione di Netanyahu di alzare l’asticella delle condizioni per un possibile accordo per la liberazione degli ostaggi. Se il ministro della Difesa Yoav Gallant appoggia la linea della necessità di continuare con la pressione militare, i due ex capo di Stato maggiore entrati nel gabinetto di guerra, Benny Gantz e Gadi Eisenkot premono per una tregua in cambio degli ostaggi. Al momento sono 132 le persone ancora in ostaggio a Gaza. Del resto, la debolezza politica del governo Netanyahu è ciò che fa dire ad Hamas che “alla fine, Israele sarà costretto a raggiungere un accordo, perché in più di cento giorni di guerra non è riuscito a recuperare alcun prigioniero con la forza”. Le parole arrivano da Musa Abu Marzouk, membro dell’ufficio politico di Hamas, secondo cui il movimento non vuole tenere i prigionieri israeliani, ma starebbe cercando un nuovo accordo per lo scambio. Israele “li riporterà indietro tramite un accordo con il movimento, o li prenderà come corpi”, ha detto Marzouk all’agenzia di stampa russa Sputnik, citata da Al Jazeera.

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