Il Comune di Trino (Vercelli) si è ufficialmente autocandidato a ospitare sul proprio territorio il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi e parco tecnologico, pur non essendo inserito nella mappa delle 51 aree idonee per il deposito, la Cnai, pubblicata il 13 dicembre scorso dopo anni di studi e di consultazioni con i territori. Possibilità offerta dal decreto legge Energia (su proposta della Lega), che ha aperto alle autocandidature. Ma se per il sindaco, Daniele Pane, Trino – che ospitava una delle centrali atomiche italiane – è stata esclusa “perché parte del Comune è lungo il fiume Po, ma è solo una parte del territorio comunale, che ovviamente non sarebbe interessata a ospitare il deposito” ha spiegato a Domani, non la pensa così Legambiente, secondo cui i criteri di esclusione, nel caso del comune piemontese, sono stati ben altri. “Non ci sono solo questioni amministrative, impedimenti che possono cambiare che riguardano gli insediamenti industriali, né tantomeno aspetti legati al consumo di suolo, che non è un criterio per l’esclusione – spiega a ilfattoquotidiano.it Gian Piero Godio, vicepresidente per il Vercellese di Legambiente e di Pro Natura – ma problemi legati, tra l’altro, alla sicurezza del territorio. Dai rischi di alluvione a quelli sismici. Senza considerare la presenza delle risaie”. Problemi che Legambiente aveva illustrato in un documento inviato a Sogin e all’allora ministero della Transizione ecologica.

L’autocandidatura ufficiale di Trino Vercellese – L’istanza è stata presentata il 12 gennaio scorso al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica e a Sogin, la società pubblica per lo smantellamento delle centrali nucleari. L’amministrazione comunale ha chiesto “di avviare una rivalutazione del territorio al fine di verificarne l’eventuale idoneità”. “La disponibilità di Trino è molto importante e viene accolta positivamente dal Governo. Andrà ora verificata sulla base delle caratteristiche tecniche e di sicurezza che la legge prevede per i depositi di questa natura” ha commentato il ministro Pichetto. L’istanza è stata approvata con una delibera di giunta ed è condizionata da alcuni fattori, tra cui il buon esito della verifica di idoneità da parte di Sogin e dalla validazione dell’autorità competente in materia di sicurezza. L’esito non dovrà mettere in discussione tutti i criteri di sicurezza. Per arrivare dalla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) che individuava 67 aree alla Cnai, che ne indica 51 (tra Basilicata, Puglia, Lazio, Piemonte, Sardegna, Sicilia), sono stati seguiti requisiti in linea con quando previsto dall’Ispettorato nazionale per la Sicurezza nucleare e la radioprotezione. I criteri di idoneità sono fisici (lontananza da zone vulcaniche, sismiche e a rischio dissesto, da insediamenti civili, industriali e militari, dalle coste) e amministrativi (escluse le aree naturali protette e di interesse agricolo, archeologico e storico). E Trino non è risultata idonea, neppure tra le 67 aree della Cnapi.

Le parole del sindaco – Secondo il sindaco Pane (lista civica, con iscrizione a Fratelli d’Italia), però, ospitare il deposito a Trino, comune di meno di settemila abitanti, porterebbe sul territorio contributi pubblici milionari, quattromila occupati nel cantiere per 4 anni e fino a mille nella gestione dell’impianto. “A differenza di tutti gli altri, noi il problema ce l’abbiamo” ha detto, ricordando che fra Trino (nel deposito temporaneo che si trova presso l’ex centrale Enrico Fermi, chiusa nel 1990) e Saluggia (che ospita l’impianto Eurex per il riprocessamento dell’uranio) “abbiamo circa l’82% di rifiuti d’Italia in termini di radioattività”. A Domani, Pane ha spiegato che l’esclusione di Trino dalla Cnai non è dovuta alle condizioni di sicurezza geomorfologica, ma a questioni amministrative.

Legambiente: “Ecco le ragioni dell’esclusione” – Non la pensa così Legambiente. “Tutta l’area di cui parla il sindaco, quella lungo il fiume su cui non si dovrebbe realizzare il deposito, ma dove è stata costruita la vecchia centrale – spiega a ilfattoquotidiano.it Gian Piero Godio – è quella a Sud, lunga circa due chilometri”. Come si legge nel documento inviato al ministero e a Sogin due anni fa “è un’area a rischio inondazione del fiume Po e all’interno dell’area di piena catastrofica in caso di crollo della diga del Moncenisio”. Poi, però, ci sono altri otto chilometri circa, a Nord Ovest. “È quasi tutto a risaia ed è una zona dove la falda acquifera è affiorante e dove l’allagamento produce l’effetto del ‘mare a quadretti’. Se si costruisce un deposito dove c’è una falda acquifera superficiale – continua il vicepresidente per il Vercellese di Legambiente – si realizza un deposito a bagnomaria”. Ma non è tutto. “Dove il territorio non ha queste caratteristiche – aggiunge – c’è un altro problema, rappresentato dalla presenza di una faglia con una potenziale sorgente di sismicità già cartografata e riconosciuta dal database italiano Itaca. Tutto questo, senza considerare che gran parte del territorio – nonostante alcuni cambiamenti – resta area protetta”. Queste alcune delle ragioni, “ma abbiamo sollevato problemi relativi anche ad altri comuni piemontesi, tanto che ne sono stati esclusi tre di quelli indicati. Il deposito va fatto, sia chiaro, ma nel sito che risulti meno pericoloso possibile”.

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