Cento giorni di bombardamenti aerei, avanzate dei mezzi corazzati e della fanteria delle Idf hanno prodotto finora una inimmaginabile devastazione nella Striscia di Gaza, nonché la morte di oltre 23mila persone. Tra di esse figurano solo pochi membri di spicco delle Brigate Izzedine al Qassam (il braccio armato di Hamas) e nessuno delle Brigate al Quds (quello del Jihad islamico) che anzi due giorni fa ha annunciato anche la creazione di un nuovo battaglione in Cisgiordania, denominato Balata, dal nome di un campo profughi nei pressi di Nablus, oggetto di frequenti attacchi dei coloni provenienti dai vicini insediamenti illegali.

In questi ultimi giorni l’Esercito israeliano ha ritirato le proprie truppe da Jabalia, Beit Hanoun, Beit Lahiya e Tel Hawa, cioè da quasi tutta la zona nord della Striscia, sia per concentrare le proprie forze su quella meridionale ma essenzialmente anche perché è fallito il tentativo di prenderne il controllo, come testimoniato dalle decine di video pubblicate dagli stessi miliziani delle Al Quds, che si aggirano tra le macerie lasciate dai raid aerei – in uno degli ultimi è stata uccisa l’ennesima giornalista palestinese, Heba Al Abdallah, assieme a sua figlia – e prendono di mira i merkava israeliani con gli Rpg.

Lo spostamento delle truppe sembra preludere, o in un certo senso accompagnare, quel che sta accadendo a nord di Israele e al di là del suo confine, in particolare dopo che il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha avvertito della possibilità di replicare a Beirut quanto fatto a Gaza. Novanta giorni di scambi a fuoco con i miliziani di Hezbollah nei pressi della Linea blu tracciata dall’Onu e raid aerei nei villaggi del sud del Libano (anche con l’utilizzo di fosforo bianco, in due occasioni) hanno ad oggi ucciso 25 civili. Gli ultimi sono stati due soccorritori delle Unità di protezione islamica (legata ad Hezbollah), uccisi da uno strike israeliano sul centro di soccorso del villaggio di Hanin, nel quale è stata distrutta anche un’ambulanza.

Si tratta di un modus operandi per certi versi inedito in questo fronte del conflitto perché per la prima volta le Idf hanno colpito direttamente un pronto soccorso. Nelle altre occasioni, il personale medico nel sud del Libano era invece caduto vittima di bombardamenti “double tap”, colpiti cioè mentre si trovavano a prestare soccorso in un luogo appena bombardato una prima volta. A fronte di una decina di soldati israeliani caduti nel nord di Israele, sono invece oltre 150 i morti tra i miliziani di Hezbollah, sebbene i dati forniti dalle Idf siano spesso al ribasso, scontando una certa opacità legata alla necessità di tutelare le proprie ragioni securitarie, laddove invece Hezbollah – in un certo senso per filosofia – tende non solo a dichiarare ma anche a rivendicare e plaudire a tutti i propri “martiri”, aggiornando la lista sui propri media e celebrando ogni singolo funerale.

Proprio nel corso del funerale di Wissam Al Tawil, comandante di un battaglione delle Forze speciali Radwan (molto attive nel conflitto in Siria, e il cui nome viene da Hajj Radwan, il nome di battaglia di Imad Mughniyeh, storico leader militare di Hezbollah ucciso da Israele nel 2008, ndr), Israele ha fatto sapere di aver eliminato nei pressi del villaggio di Kherbet Selm anche Ali Hussein Barji, uno dei principali comandanti della flotta di droni del Partito di Dio. La morte di Barji, che aveva orchestrato gli attacchi con droni del 6 e del 9 gennaio sulla base aerea di Meron e sul quartier generale del Comando Nord nei dintorni di Safed, è stata appunto confermata dai media di Hezbollah.

Se a Gaza Israele non sembra nelle condizioni di poter colpire membri di rilievo dei movimenti palestinesi, è in Libano che il cambiamento di strategia di Tel Aviv sembra prendere forma, riorientandosi: è a Beirut che è stato ucciso forse l’unico leader di Hamas di un certo rilievo, Saleh Al Arouri, per il quale ci si aspetta la annunciata rappresaglia da parte di Hezbollah; è appunto nel sud del Libano ed in Siria che Israele sta ricorrendo in modo sempre più massiccio agli omicidi mirati, come quelli di Al Tawil e Barji. Se è vero che una invasione di terra del Libano esporrebbe le truppe israeliane ad un altro conflitto dalla durata ignota, nonché potenziali alte perdite, anche per via della accresciuta “specializzazione” dei miliziani di Hezbollah con gli (abbondanti) armamenti anti carro, gli “omicidi mirati” sono la temuta “specialità” di Israele, un metodo a cui ricorre almeno sin dai tempi dell’attentato di Monaco nel 1972.

Hezbollah lo sa bene: tra le sue fila sono stati uccisi il citato Imad Mughniyeh nel 2008 a Damasco, così come suo figlio Jihad nel 2015, e suo cugino Mustapha Badreddine – a capo delle operazioni militari nel conflitto siriano – nel 2016, sempre in Siria. Nel 2013, fuori da casa sua a Beirut, era invece toccato ad Hassan Al Laqqis, apparentemente ucciso da militanti di un gruppo qaedista legato ai servizi sauditi ma secondo Hezbollah stessa da Israele, che tuttavia tende a non confermare né smentire questo genere di omicidi. È verosimile che Tel Aviv sia sulle tracce di almeno altri quattro comandanti di Hezbollah: Haytham Abu Ali Tabatabaei, sempre delle Forze Radwan (anche conosciute come Unità 125), su cui pende anche una taglia di 5 milioni di euro del Dipartimento di Stato americano; Ahmad Fouad Hamadè e Muhammad Yahya Kallas dell’Unità 133; Ali Mohammad Kazan dell’Unità 910.

È però in Iran che Israele ha messo a segno il maggior numero di omicidi mirati. Non solo figure militari, come il comandante delle IRGC Seyyed Razi Mousavi, ucciso in Siria lo scorso dicembre, così come il generale Hassan Souhani cinque mesi prima, il generale Hassan Shateri nel 2013, il generale Mohammad Ali Allah-Dadi nel 2015, o il generale Abolfazi Alijani nel 2022. Sono infatti sei gli scienziati nucleari iraniani – quindi figure civili – che tra il 2010 ed il 2023 hanno perso la vita in circostanze misteriose e in attentati attribuiti ad Israele: Ardeshir Hosseinipour nel 2007, Masoud Ali Mohammadi e Majid Shahriari nel 2010, Dariush Rezaeinejad nel 2011, Mostafa Ahmadi Roshan nel 2012 e l’ultimo, Mohsen Fakhrizadeh, a capo del programma nucleare iraniano, ucciso nel 2020.

Un allargamento pienamente regionale del conflitto in corso, fino ad un coinvolgimento diretto dell’Iran o magari anche degli Stati Uniti, resta una ipotesi al momento più remota delle altre. Se non altro perché la stessa dottrina militare dell’Iran – conscio della propria inferiorità militare da un punto di vista convenzionale, nonché del proprio relativo isolamento – si basa sul concetto di asimmetria, cioè sul sostegno a milizie regionali alleate o emanate da Teheran, che possano destabilizzare il nemico e costringerlo su più fronti.

Un inasprimento del conflitto in Libano è invece probabile ma non è chiaro quanto ciò possa tradursi nella concretizzazione di quanto paventato dal ministro israeliano Gallant, oppure in una prosecuzione a bassa intensità di scontri a fuoco e raid nei pressi del confine libanese, accompagnata dal crescente ricorso ad operazioni “mirate”, come quella che ha ucciso Saleh Al Arouri. D’altronde, la recente accusa di genocidio nei confronti di Israele, portata dal Sudafrica di fronte ai giudici della Corte Internazionale di Giustizia, ha acceso ulteriori riflettori sulla ferocia dell’assedio israeliano su Gaza – che è lungi dall’essersi esaurito – e, al di là della fattibilità militare, potrebbe spingere Tel Aviv a scegliere per il momento quest’ultima alternativa “ibrida”.

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