E’ morto Riad al Turk, considerato il “Mandela siriano”. “E’ spirato pacificamente e soddisfatto di quello che ha fatto nella sua vita” ha detto Khuzama al Turk, annunciando la morte del padre, scomparso all’età di 93 anni a Parigi, in Francia, lontano dalla Siria. Paragonato a Nelson Mandela a causa della sua strenua lotta per la libertà e per gli anni spesi in carcere, la vita di Riad al Turk è stata anche lo specchio del paese. Nato nel 1930 a Homs, dopo gli studi in legge, aderisce al partito comunista siriano. Il primo arresto arriva nel 1952 per mano delle autorità guidate dal colonnello Adib al Shishakli, allora al comando della Siria. L’accusa? Non è formulata. E’ un arresto arbitrario. Il partito comunista, di quale al Turk fa parte, viene messo al bando insieme agli altri partiti e viene data la caccia a tutti i suoi iscritti.

Dopo quindici mesi agli arresti, al Turk esce di prigione. E quando il nazionalismo di al Shishakli finisce, per la Siria comincia il “sogno” del panarabismo incarnatosi nella persona di Gamal Abdel Nasser che, nel 1958, riesce ad unire Egitto e Siria nella RAU – la Repubblica Araba Unita. Tutti i partiti e i movimenti di opposizione vengono nuovamente messi al bando. Al Turk si oppone e viene incarcerato una seconda volta. Quando anche l’esperienza panaraba termina, Egitto e Siria si dividono. Al Turk continua nella sua militanza che, siamo negli anni sessanta, vede ora il partito comunista siriano scontrarsi con il partito Ba’th, appena arrivato al potere. Nel 1972, poco più di un anno dopo che Hafez al Assad ha preso le redini del Paese, attraverso un colpo di stato contro i suoi stessi compagni di partito, viene creato un fronte progressista popolare: una coalizione in cui il regime coopta tutti i partiti. Quello comunista siriano si spacca in due: è la scissione. Da una parte al Turk e i suoi che non vogliono il compromesso con Assad. Dall’altra i comunisti di Khalid Bakdash che stringono un patto di ferro con il regime.

Comincia un periodo di intensa opposizione che ha il suo culmine negli anni 80. La guerra civile in Libano è cominciata, il governo siriano vuole mettere le mani sul paese dei cedri. L’opposizione islamista e quella secolare premono contro il regime di Assad: inizia così la repressione. Riad Al Turk è un fuggiasco. Per prenderlo, i servizi di sicurezza di Damasco arrestano la moglie, Asma al Faisal. La tengono in custodia senza un capo di accusa. Qualche giorno dopo l’oppositore si consegna: è il 28 ottobre del 1980. La moglie Asma rimarrà in carcere due anni senza aver subito un processo. Mentre per al Turk il carcere durerà 18 lunghi anni. Per i primi 13 verrà tenuto in completo isolamento: non vedrà nessuno, neanche la moglie o le due figlie. “La mia cella misurava due metri per due e non aveva finestre. Mi picchiavano, non c’era niente da leggere e il cibo era pessimo” ha raccontato in una intervista a Joshua Landis, professore e direttore del Center for Middle East Studies dell’Università dell’Oklahoma. “Non ho mai visto il sole per i primi 10 anni di reclusione: Non puoi immaginare come sia stato”.

Viene scarcerato nel 1998, dopo pressioni di organizzazioni internazionali, come Amnesty International. Nel 2001, alla morte di Hafez al Assad, al Turk partecipa ad un programma in onda su Al Jazeera e, commentando la scomparsa del presidente siriano, dichiara: “E’ morto il dittatore”. Quelle parole gli costeranno una nuova condanna a tre anni di reclusione. Ma sconterà solo 15 mesi di carcere.

Allo scoppio delle proteste nel 2011 nel paese mediorientale, al Turk entrerà in clandestinità per fuggire da un possibile arresto. Nel 2018, con l’aiuto di alcuni attivisti, lascerà il paese trovando rifugio in Francia continuando, nonostante l’età e le condizioni di salute, a chiedere un cambio di regime in Siria, la cessazione delle violenza e l’avvio di una transizione democratica. “Possano le sue aspirazioni per la dignità della vita dei siriani darci ispirazione” ha scritto su X Brigitte Curmi, già ambasciatrice francese in Siria.

Nel solo 2023 più di 4.360 persone, tra combattenti e civili, sono state uccise nella guerra civile siriana che dura ormai da tredici anni. La cifra è in crescita rispetto al 2022, quando furono uccise 3.825 persone. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, quest’ultimo è stato il dato più basso di vittime dall’inizio del conflitto nel 2011, quando il governo ha represso brutalmente le proteste pacifiche in favore della democrazia. Da allora, oltre 500mila persone sono morte e dieci milioni sono diventati sfollati interni o esterni al paese.

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